Secondo la relazione di una commissione ad hoc costituita presso il ministero del lavoro, in Italia un quarto dei lavoratori ha una retribuzione individuale bassa – cioè, inferiore al 60% della mediana – e più di un lavoratore su dieci si trova in situazione di povertà – cioè, vive in un nucleo famigliare con reddito netto equivalente inferiore al 60% della mediana. Una della proposte avanzate per affrontare il problema è quella del salario minimo per legge. Lungo queste linee di sta muovendo anche la Commissione Europea. E’ evidente che il salario minimo non risolve tutti i problemi, perché una buona parte dei working poor sono tali perché hanno lavori discontinui o lavorano poche ore.
Tuttavia, il salario minimo aiuterebbe e, se collocato attorno al 60% della retribuzione mediana, non dovrebbe avere effetti negativi sulla competitività delle imprese, quanto meno delle imprese serie. Taglierebbe le gambe – questo sì- a quelle microimprese che vivono proprio grazie ai bassi salari e all’evasione fiscale e che rappresentano una buona parte di quell’11% di Pil sommerso che è una delle grandi anomalie dell’Italia. E’ ora di chiamare le cose con il loro nome: queste sono “imprese zombie”, che sopravvivono grazie al contributo di lavoratori mal pagati e dei contribuenti. Il loro destino è uscire dal mercato. I sindacati strepitano contro i working poors e i contratti pirata, ma si oppongono al salario minimo, perché temono di perdere ruolo; una visione miope che ne mina la credibilità come paladini dei lavoratori.
Working poor e salario minimo
di Giampaolo Galli, Inpiù, 25 gennaio 2022
Se ben fatto combatterebbe l’economia sommersa e le “imprese zombie”
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