Al nostro articolo del 1 marzo scorso su questo giornale (“Non è l’euro il problema dell’Italia”) sono state mosse due osservazioni critiche da parte di persone seriamente interessate al tema. Dato che si tratta di due punti cruciali, proviamo a fornire qualche chiarimento.
La prima obiezione riguarda la nostra previsione di una “crisi finanziaria potenzialmente molto più grave di quella del 2011”, qualora si consolidasse la prospettiva di una vittoria elettorale di partiti anti euro. L’obiezione è che questa è la solita profezia catastrofista, alla stregua di quelle che erano state formulate da esponenti dell’establishment a proposito della Brexit o della vittoria di Trump. Non è così, in questo caso la crisi è qualcosa di più di una normale previsione. E’ quasi una certezza. Nel momento in cui diventasse probabile l’exit, gli investitori—ma anche i semplici cittadini—farebbero di tutto per proteggere i propri risparmi, sapendo che se li tenessero presso banche italiane, o comunque in attività finanziarie italiane, quei risparmi verrebbero convertiti in nuove lire, destinate a svalutarsi rapidamente. In passato, quando ancora non c’era l’unione monetaria, le fughe di capitali quasi sempre precedevano le svalutazioni, e in gran parte le determinavano, anche in presenza di severi controlli valutari come negli anni settanta in Italia. La differenza rispetto al passato è che oggi l’Italia non ha una sua moneta che possa essere prontamente svalutata. Devono quindi passare molti mesi fra il momento in cui le persone si convincono che ci sarà una svalutazione—perché i sondaggi danno per vincente un partito anti euro—e il momento in cui la svalutazione diventa effettivamente possibile. Quest’ultima richiede che il partito anti euro vinca effettivamente le elezioni, faccia approvare al Parlamento la decisone politica di uscire nonché le conseguenti norme tecniche, e infine realizzi i cambiamenti nel sistema dei pagamenti che sono necessari per mettere in circolazione il nuovo conio. In quel lungo intervallo di tempo, il paese sarebbe in balia non solo della speculazione professionale, ma anche del (motivato) panico dei risparmiatori.
In un’intervista dell’estate 2015, l’ormai ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis spiegò che proprio per questo motivo—la mancanza di una moneta propria—la situazione della Grecia, se avesse deciso di uscire, sarebbe stata molto diversa e peggiore di quella in cui si trovò l’Argentina quando abbandonò l’aggancio al dollaro. Varoufakis giunse così alla conclusione che l’euro è irreversibile, nel senso che si sa come entrarci, ma non si sa come uscirne senza provocare catastrofi.
La seconda osservazione critica riguarda la nostra affermazione che la svalutazione del cambio non è un’alternativa rispetto alla cosiddetta svalutazione interna, ossia la compressione dei salari, ma è esattamente un modo per ridurre i salari reali. L’obiezione è che la riduzione del salario reale è modesta e può esser contrastata con un appropriata azione sindacale. La cose non stanno così. Come spiegò Milton Friedman, una svalutazione del cambio è come un cambiamento dell’ora legale, mentre una svalutazione interna equivale a costringere ogni individuo a cambiare le proprie abitudini, andare in ufficio un’ora prima, pranzare un’ora prima, ecc. La differenza è abbastanza piccola, anche se, com’è noto, Friedman pensava che fosse più semplice cambiare l’ora legale, e per questo motivo preferiva i tassi di cambio flessibili. Tuttavia, la svalutazione è più iniqua perché fa più male alle classi sociali più deboli che non hanno modo di proteggersi dal rialzo dell’inflazione. E’ quindi fuorviante la frase che viene ossessivamente ripetuta secondo cui “con l’euro l’Italia può ritrovare la competitività soltanto attraverso una riduzione dei salari, mentre esiste una soluzione semplice che consiste nella svalutazione del tasso di cambio”. L’affermazione corretta è che, prima dell’euro, l’Italia poteva recuperare competitività attraverso la riduzione dei salari reali ottenuta tramite lo strumento ingannevole della svalutazione esterna, mentre, con l’euro le imprese e il governo devono trattare con i lavoratori. Peraltro è ben noto che se i sindacati riescono a ottenere l’integrale recupero del potere d’acquisto, la svalutazione non ha alcun effetto sulle variabili reali dell’economia, ma si limita a far aumentare i prezzi.
Sarebbe un enorme passo avanti se la discussione pubblica fosse impostata in termini economicamente sensati. Diventerebbe così chiaro che quei politici che sventolano l’exit come soluzione quasi miracolistica, oltre a rendere più fragile l’Italia sui mercati finanziari, non stanno in realtà proponendo niente di diverso da una riduzione dei salari.
Lorenzo.Codogno@lc-ma.com @GiampaoloGalli
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