“Torneremo al Pil pre-Covid a inizio 2022 ma ci vorrà un’altra Italia”

Intervista di Adriano Bonafede all’economista Giampaolo Galli: “Bisogna agire sulla burocrazia e ridisegnare la giustizia”.
Huffpost, 7 agosto 2021

La buona notizia: anche l’Italia, insieme all’Europa, tornerà ai livelli di Pil ante-pandemia nei primi mesi del 2022, a due anni dall’inizio del Covid-19. A prevederlo in questi giorni è l’Ufficio parlamentare di Bilancio. Ma come sarà l’Italia del dopo pandemia? Uguale a quella precedente solo con un salto temporale di due anni? “No, sarà molto diversa”, racconta in questa intervista Giampaolo Galli, economista in Banca d’Italia, poi capo economista di Confindustria, direttore generale dell’Ania e successivamente di Confindustria, infine parlamentare del Pd tra il 2013 e il 2018. Oggi collabora con Carlo Cottarelli all’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica, dove insegna Politica Economica. “Ci saranno molte cose nuove e positive ma i vecchi nodi da sciogliere saranno gli stessi, mentre nuovi pericoli potrebbero affacciarsi. E non dovremmo gioire troppo del ritorno ai livelli di Pil del 2019″.

Dobbiamo purtroppo notare che mentre per altri Paesi tornare ai livelli precedenti al Covid è di certo un successo, non così sarà per il nostro Paese.

Perché?

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Nel 2019 l’Italia stava sotto il livello del 2007, ossia prima della grande crisi finanziaria. E fra la metà degli anni novanta e il 2007 il Pil era cresciuto pochissimo. Posto uguale a 100 il 1995, il Pil pro capite del 2019 era a 108. La Grecia, con tutte le disgrazie che ha avuto, era a 120. Il Giappone, che era considerato il grande malato del mondo, era a 122. La Spagna era a 142 e la Germania a 136. Inoltre, se si esclude dal calcolo l’Italia, il Pil pro capite dell’Eurozona è salito del 45 per cento, la stessa percentuale degli Usa. Come vede, l’Italia ha un gap enorme che deve recuperare.

Eppure il rimbalzo del Pil sembra notevole: non è almeno questa una notizia positiva?

Sì, è vero, oggi stiamo rimbalzando da una crisi molto forte che aveva portato a un crollo del Pil a quasi il 9 per cento nel 2020. È possibile che questo rimbalzo ci dia la spinta a fare meglio. Restano da risolvere i cronici problemi dell’Italia e speriamo che i fondi europei e le riforme ad essi collegate ci aiutino a farlo, grazie anche all’autorevolezza di Draghi.

Quali sono questi problemi?

I principali sono la burocrazia e la giustizia. Agire sulla burocrazia significa anche disboscare la giungla legislativa e remunerare i dipendenti sulla base del merito, come si fa all’estero e anche in alcune amministrazioni italiane, ad esempio la Banca d’Italia. La giustizia va ridisegnata. Due nodi fondamentali che finora non siamo riusciti a sciogliere e che restano l’incognita principale per il nostro Paese.

Tentiamo di fare un confronto tra l’Italia del 2019 e quella che avremo nel 2022. La “quantità” di Pil sarà la stessa ma sarà diverso il modo in cui l’otterremo?

Intanto ci sarà una maggiore spesa pubblica per molti motivi. Va aumentata la spesa per la sanità, questo ormai è acquisito. E maggiori risorse dovrebbero andare a scuola e ricerca. Poi ci sono le richieste della politica. Sulle pensioni ci sarà l’uscita da quota 100, ma potrebbe restare una qualche forma di flessibilità costosa per lo Stato. Potrebbe esserci una riforma degli ammortizzatori sociali: c’è una pressione fortissima per ampliare la copertura dei diversi sussidi; si parla anche di includere il lavoro autonomo. Si chiede anche a gran voce una riduzione della pressione fiscale.

Scusi ma tutto questo porta a un maggior deficit, questo è l’esito del Covid? Lo stesso Pil raggiunto con una maggiore spesa? Ma fino a che punto l’Italia può spingersi su questo fronte?

Indubbiamente i margini sono stretti. Oggi il deficit pubblico è al 12 per cento, dovremo scendere al 6 per cento nel 2022 e poi fino al 3 nel 2025. Questo perché ci siamo impegnato con il Def a riportare il debito pubblico dal 160 per cento del Pil al 135 per cento, il livello di prima della pandemia. È vero, abbiamo 10 anni di tempo per farlo; sembra tanto, ma alla luce dell’esperienza dei precedenti decenni non sarà affatto facile.

Ci sarà un bel daffare per il ministro dell’Economia: come farà a resistere a tutte queste pressioni, tutto sommato ragionevoli, all’aumento della spesa pubblica?

È ovvio che si dovranno fare alcune scelte essenziali.

C’è una gran voglia di uscire dalla crisi del Covid. Questa spinta soggettiva ma comune può dare un’accelerazione alla crescita?

Da una crisi si esce spesso con la voglia di riscatto. Fu così dopo la seconda guerra mondiale: la gente si rimise a lavorare e a ricostruire. Ho in mente i contadini delle Valsugana che ricostruirono le case distrutte dalla guerra con le proprie mani senza aiuti pubblici e senza che nessuno glielo avesse insegnato. Il Covid non è paragonabile alla guerra, che è molto peggiore, però credo che anche adesso ci sia voglia di riscatto e di rilancio. C’è da dire che non sempre quando si esce da una guerra c’è questo sentimento positivo. Per esempio dopo la prima guerra mondiale non ci fu, anzi in molti paesi ci fu un avvitamento sociale ed economico che portò alle dittature e a nuovi confitti fra le nazioni.

Ora non dovrebbe esserci questo rischio…

Non in quel modo. Un rischio però lo vedo. Le ferite del Covid hanno effetti che possono durare nel tempo.

E cioè?

Ad esempio, migliaia di piccoli imprenditori, lavoratori autonomi, professionisti, commercianti, che finora avevano avuto una vita abbastanza agiata, sono usciti dal mercato. Guardi quanti negozi hanno definitivamente chiuso. Molti professionisti non hanno più lavoro. E non dimentichiamo che tutte le Pmi vivono ancora in un regime di semi-moratoria dei prestiti: che succederà quando le banche chiederanno loro di rientrare? In generale, questi gruppi sociali non avevano mai conosciuto la povertà. Molti di questi soggetti sono usciti dal mercato a causa delle varie restrizioni, tra cui i lockdown, e hanno quindi un forte risentimento contro lo Stato; potrebbero quindi essere attratti da nuove forme di populismo.

Però il populismo sembra in regressione.

È vero, i 5 Stelle e in parte anche la Lega hanno perso i connotati più estremi. Però io parlo di possibili nuove forme di populismo: cosicché quello che è uscito dalla porta potrebbe rientrare dalla finestra.

Proviamo a guardare l’Italia post-pandemica anche dal punto di vista dell’occupazione. Lei ha già parlato di una consistente quota della popolazione che si ritrova ai margini e senza il vecchio lavoro. Ma in generale, ad aprile 2020, l’occupazione sarà tornata ai livelli precedenti al Covid?

Il numero degli occupati si dovrebbe riprendere man mano che il Pil tornerà ai livelli del 2019. Ma ciò potrebbe avvenire successivamente, perché di solito l’occupazione segue con qualche mese di ritardo la crescita del Pil.

Ci saranno anche nuove possibilità di occupazione?

Sì, in questi ultimi due anni sono cambiate due cose fondamentali: il nuovo Green Deal della Ue e la digitalizzazione. Sul primo punto c’è da dire che finora si è fatto poco, solo efficientamento energetico. Nei prossimi anni, però, dovranno cambiare molte cose e molto rapidamente. Ormai ovunque si è accettato che questo è un problema cruciale; c’è rimasto forse solo Trump a negarlo. Questo vuol dire economia circolare, energie rinnovabili eccetera: qui si creeranno molti nuovi lavori. L’ingegnere che aveva lavorato con Elon Musk per la costruzione delle Tesla ha creato un’impresa per raccogliere elettrodomestici e telefonini da cui estrarre il materiale per le batterie delle auto elettriche. Sul fronte degli investimenti, per raggiungere gli obiettivi europei, è probabile che dovremo riempire l’Italia di pale eoliche e pannelli solari, anche se questo porterà, e già lo si vede, a resistenze notevoli.

E sul fronte della digitalizzazione?

Qui le notizie sono positive. È probabile che quello che abbiamo imparato a fare con lo smart working, che ha dato una grossa spinta alla digitalizzazione, ce lo porteremo con noi nei prossimi anni. C’è anche la consapevolezza che occorra collegare tutti almeno con il 4G e poi con la banda ultra larga. Le imprese di telecomunicazioni hanno fatto grossi passi avanti; non era scontato che la rete reggesse a un improvviso e generalizzato aumento del suo uso durante il lockdown duro dell’anno scorso.

Secondo molti l’Italia dovrebbe far in modo da aumentare l’occupazione femminile.

Se guardiamo il tasso di occupazione totale, l’Italia l’ha molto migliorato: nel 1995 eravamo al 51 per cento, nel 2019, prima del Covid, eravamo saliti al 59. Ma è ancora troppo poco. In Svizzera siamo all’80 per cento, in Svezia e in Germania al 77, in Olanda al 78. Il problema nasce soprattutto da quello che definirei un’oscenità, il divario di opportunità fra uomini e donne. Qualcosa si farà, non è immaginabile che l’Italia rimanga così diversa dagli altri. Ormai c’è una consapevolezza comune che questo è un passaggio non solo economico, ma di civiltà assolutamente ineludibile.


Adriano Bonafede

Giornalista economico

Qui il link all’Huffington Post

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