Pro e contro del programma economico di Giorgia Meloni

di Giampaolo Galli, 28 ottobre 2022.
Il riconoscimento che la ricchezza la creano le imprese è una buona notizia. Ma sulla clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale, che ostacola le concessioni di infrastrutture pubbliche ai privati, non ci siamo.

Comincio da alcune cose che ho trovato convincenti del discorso di Giorgia Meloni. La prima è la forte sottolineatura dell’importanza delle imprese e della libertà di impresa. “La ricchezza la creano le imprese con i loro lavoratori, non lo stato tramite editto o decreto”. Vivaddio, bene! Non c’è che da sperare che alle parole seguano i fatti. Vedremo. Mi ha convinto l’acuta consapevolezza della difficoltà dell’attuale congiuntura e la sottolineatura che il segno meno previsto per la crescita del pil del 2023 è uno dei peggiori in Europa e che non si tratta di una congiuntura isolata perché l’Italia non cresce da vent’anni. “Negli ultimi vent’anni l’Italia è cresciuta complessivamente del 4 per cento, mentre Francia e Germania di più del 20 per cento”. Doppiamente bene! Perché ciò significa che non ci sono tanti margini per distribuire bonus con i soldi pubblici e, soprattutto, perché qui si inseriscono due ragionamenti importanti: l’apertura agli investimenti delle imprese estere in Italia e la sfida del Pnrr come occasione per affrontare i nodi strutturali che impediscono all’Italia di crescere.

L’obiettivo del Pnrr è quello di “Rimuovere tutti gli ostacoli che frenano la crescita economica e che da troppo tempo ci siamo rassegnati a considerare mali endemici dell’Italia”. Di qui l’impegno a dare efficienza alla Pa, sveltire i processi, semplificare le regole. Non sono novità; queste parole le abbiamo sentite tante volte. Ma finché il problema della bassa crescita non viene risolto è giusto che vengano ripetute. Chissà se questo governo riuscirà a sfidare le grandi lobby di questo paese che hanno ostacolato l’attuazione dei tanti tentativi di riforma che sono stati fatti. E c’è una parola che è stata oggetto di assurde recriminazione in questi giorni e invece tornata nel discorso del presidente Meloni: merito. E’ la parola chiave per rimettere in moto l’Italia.

Le cose che non mi hanno convinto. Un primo punto è “la clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale… per le concessioni di infrastrutture pubbliche, come autostrade e aeroporti”. Qui va quantomeno risolta un’ambiguità: va chiarito se ciò vuol dire che i privati non possono gestire infrastrutture di interesse nazionale. Dio ce ne scampi! Vogliamo tenerci anche l’Atac e l’Ama per sempre? Anche gli autobus e la nettezza urbana sono infrastrutture essenziali. Non sarebbe meglio metterle a gara?

E qui veniamo al secondo punto dolente, molto dolente, del discorso. La tutela della concorrenza non esiste. La parola concorrenza viene usata solo quando si dice (altra nota dolente) che bisogna assicurare “la proprietà pubblica delle reti, sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni”. Infine il fisco. Va bene, anzi benissimo, la riduzione (graduale) del cuneo fiscale, ma non vanno bene altre due cose: l’estensione della flat tax per gli autonomi e la flat tax sugli incrementi di reddito rispetto al massimo raggiunto nel precedente triennio. Queste due proposte erano nel programma condiviso del centrodestra ed è normale che vengano ripresi. Ma la flat tax per gli autonomi è sommamente ingiusta perché restringe ancora di più l’imponibile Irpef: sarà ancora più vero che l’Irpef progressiva la pagano solo dipendenti e pensionati. E la flat sugli incrementi di reddito è un’inutile complicazione del sistema fiscale che crea insostenibili discriminazioni, a parità di reddito, fra chi l’aumento l’ha avuto l’anno scorso e chi lo avrà l’anno prossimo. E non si capisce cosa succeda a regime: milioni di persone con gli stessi identici redditi pagheranno imposte diverse a secondo di quando avranno avuto gli aumenti? Questo sarebbe un grande pasticcio e c’è da sperare in un rapido ravvedimento.

C’è infine la “tregua fiscale”, che è una pessima idea. Ma non dimentichiamo che i condoni li hanno fatti anche i governi precedenti. E il giudizio se questa norma sarà migliore o peggiore delle precedenti, dipende da cruciali dettagli che non sono ancora noti. Sospendo il giud

Troppo piccole le nostre imprese “calabrone”, Inpiù, 23 marzo 2021

Se da anni cresciamo poco dipende anche dalla struttura del sistema produttivo.

Nei giorni scorsi la Banca d’Italia, in un’audizione di Alessio De Vincenzo, ci ha dato una pessima notizia. Negli ultimi anni le imprese italiane, quelle che sono sopravvissute alle crisi, hanno rafforzato la loro struttura patrimoniale, ma son rimaste piccole, il che, ci ricorda Banca d’Italia, riduce la possibilità di “migliorare la qualità delle prassi gestionali, di beneficiare appieno dei vantaggi connessi con l’adozione delle nuove tecnologie, di affrontare con efficacia le sfide della transizione ecologica, di investire in capitale umano”.  Da un quarto di secolo, – è bene sempre ricordarlo- l’Italia è il paese con la più bassa crescita al mondo (se si eccettuano paesi squassati da guerre civile o catastrofi naturali); il nostro pil procapite, prima del Covid, era uguale a quello di venti anni fa. Le ragioni di questa stagnazione sono molte e molto complesse, ma alla fine tutte le spiegazioni collassano sulla struttura delle imprese. La crescita non la porta la cicogna, diceva un antico slogan di Confindustria; la crescita la fanno le imprese. Vero.

Ma è vero anche il contrario. Se non c’è crescita, vuol dire che le imprese non funzionano. Tante piccole imprese italiane ci sembrano dei miracoli e forse lo sono. Inventano prodotti per nicchie di mercato piccolissime; combattono tutti i giorni una guerra per la sopravvivenza contro ostacoli burocratici di ogni tipo. Ma così non si può andare avanti a lungo. L’impresa padronale o famigliare è il calabrone che ha volato per tanto tempo, ma ora non ce la più. Queste imprese sono del tutto inadatte a vincere la concorrenza su mercati aperti nell’era della digitalizzazione e della trasformazione ecologica. Queste imprese continuano a cercare periti industriali, quando invece servirebbero fior di laureati per fare ricerca e anche per fare la gestione di realtà che non possono non essere molto complesse. Con il suo piglio aristocratico da ex direttore di McKinsey, Roger Abravanel nel suo ultimo libro dice che le nostre imprese sono semplicemente brutte. Forse dovremmo cominciare a usare il linguaggio giusto.

“Un grave errore l’abolizione dell’interesse composto. Troppa demagogia sull’anatocismo. Il Parlamento rischia di fare danni” intervista a Giampaolo Galli su FIRSTonline – 29/07/2014

Secondo il parlamentare del Pd, Giampaolo Galli (ex Bankitalia), il Parlamento correggendo le norme del decreto Guidi sta creando enormi distorsioni sul cosiddetto anatocismo, gli interessi sugli interessi che i creditori debbono alle banche – Cosi non si fa giustizia ma si fanno solo danni – La lezione di Raffaele Mattioli.

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Giampaolo Galli commenta la legge di Stabilità su Zapping duepuntozero – Radio1 – 17/10/2013

Giampaolo Galli è intervenuto ieri nel programma radiofonico Zapping duepuntozero per commentare la legge di Stabilità varata dal Consiglio dei ministri dello scorso 15 ottobre.

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