Fra gli anni settanta e i primi anni novanta, quando in Europa cominciava a farsi strada l’idea della moneta unica, Mundell fu consulente ascoltato di governi e banche centrali. E’ oggi considerato, a ragione, il padre intellettuale dell’euro e, comunque, uno dei suoi principali architetti. Abbiamo ottime ragioni per rileggerlo, oltre che per rimpiangerlo.
Un ricordo di Giampaolo Galli, Inpiù, 6 aprile 2021
Pochi economisti hanno avuto tanta influenza su uno spettro tanto ampio di materie. Sostanzialmente quasi tutto ciò che oggi sappiamo in materia di economia monetaria internazionale è dovuto a Robert Mundell, scomparso ieri. Come scrisse il suo allievo più brillante, Rudi Dornbusch, dopo Mundell è difficile trarre ispirazione dai pur grandissimi economisti che lo hanno preceduto. Sono relegati agli archivi della storia del pensiero economico giganti come Charles Kindelberger, James Meade, Robert Triffin, Gottfried Haberler. Mundell era un amante dell’Italia e aveva una casa vicino a Siena, dove per tanti anni intrattenne economisti di tutto il mondo organizzando le cosiddette Conferenze di Santa Colomba. Era un formidabile ragionatore e anche un affabulatore ineguagliabile: dominava qualunque platea, con la sua voce pacata, anche dolce, spesso ironica.
Vinse il premio Nobel nel 1999 per il suo modello di economia aperta, quello che oggi è lo standard in tutti i libri di testo di economia internazionale, e per il suo scritto sulle aree monetarie ottimali. Il modello chiarisce perché la politica monetaria non può essere indipendente in regime di cambi fissi e perché la politica fiscale è sostanzialmente impotente in regime di cambi flessibili. Lo scritto sulle aree ottimali convinse molti che l’Europa poteva avere un’unica moneta. Mundell si spese molto per questo obiettivo, polemizzando con tanti suoi colleghi nordamericani, a cominciare da Milton Friedman, che invece avevano molti dubbi. Fra gli anni settanta e i primi anni novanta, quando in Europa cominciava a farsi strada l’idea della moneta unica, Mundell fu consulente ascoltato di governi e banche centrali. E’ oggi considerato, a ragione, il padre intellettuale dell’euro e, comunque, uno dei suoi principali architetti. Abbiamo ottime ragioni per rileggerlo, oltre che per rimpiangerlo.
Di straordinaria attualità il volume presentato a Roma con tutti gli interventi di Carlo Azeglio Ciampi alle assemblee dell’Abi: colpiscono la chiarezza e la determinazione dell’ex Governatore e Capo dello Stato per portare l’Italia al livello dei Paesi più avanzati – La importanza dell’euro e le deleterie nostalgie di chi oggi vagheggia il ritorno al passato di un Paese fragile
In un tweet del 28 marzo, commentavo un bell’articolo di Claudio Cerasa (eccolo) che spiegava tutti i motivi per i quali il M5S e la Lega faranno disastri e aggiungevo: “Non vedo perché il PD dovrebbe essere corresponsabile, #senzadime”.
Negli ultimi anni per descrivere la condizione dell’economia italiana in molti abbiamo fatto ricorso all’immagine del baratro. Espressioni del tipo “siamo sull’orlo del baratro” oppure “ci siamo allontanati dal baratro” sono diventate di uso corrente e ancora oggi condizionano fortemente il nostro modo di pensare. Un’immagine diversa e forse più appropriata è quella del crinale. Il punto chiave nell’immagine del crinale è che piccole differenze nelle condizioni iniziali possono fare una grande differenza negli esiti successivi, come nel caso dello scalatore che può precipitare o arrivare in vetta sano e salvo, a seconda che metta il piede nel punto giusto oppure un millimetro più in là.
Ritengo che non abbia fondamento la critica secondo cui staremmo sprecando tempo e capitale politico occupandoci di riforme costituzionali ed elettorali, invece di dedicarci “all’unica cosa che interessa la gente” e cioè la crisi economica.
Innanzitutto è difficile, almeno per me, immaginare cosa di più si potesse fare contro la crisi: il bonus di 80 euro, l’azzeramento dell’Irap lavoro, l’azzeramento dei contributi per i neoassunti nel 2015, la riforma dell’articolo 18 sono i principali provvedimenti realizzati. Sono quanto di meglio gli economisti e gli stessi imprenditori potessero immaginare, almeno dati i vincoli dettati dal combinato disposto di un alto debito pubblico e delle regole europee. A questi provvedimenti vanno aggiunte le riforme strutturali in itinere – più complesse, ma non meno importanti – su fisco, scuola, PA, giustizia.
Il secondo, fondamentale motivo che mi induce a ritenere infondata questa critica è che le istituzioni politiche sono decisive per la crescita. Ne sono consapevoli gli studiosi, le forze sociali, gli imprenditori, i mercati. C’è una sterminata letteratura economica su questo punto. Testi con titoli come “Institutions as a fundamental cause of long-run growth”, oppure: “Why nations fail?” sono ormai letture diffuse nei corsi base di economia. Le istituzioni interagiscono con la cultura e con la religione, ma non sono la stessa cosa; fortunatamente, le istituzioni sono molto meno difficili da modificare, attraverso scelte collettive consapevoli.
Fino ad oggi l’Italia è stata classificata fra le democrazie non decidenti. Una democrazia che non decide non scioglie i nodi, ossia non fissa delle regole che siano al tempo stesso uguali per tutti e capaci di adattarsi tempestivamente alle esigenze mutevoli della società.
E quando questo succede, le persone e le imprese trovano il modo di sciogliere i nodi da sé, arrangiandosi, servendosi dei propri sistemi di relazioni o favori.
Questo costituisce il tema centrale, dal punto di vista della crescita.
Se le istituzioni non decidono, il privato si arrangia e il mercato non funziona.
Questo è il terreno di coltura di favoritismi, capitalismo di relazione, lobbismo deteriore, corruzione. Da qui la svalutazione del merito, il proliferare di piccole e grandi autocrazie locali, nella burocrazia e nella politica, nell’intreccio fra queste e l’imprenditoria.
Tutto questo è il contrario di quei quattro concetti che sono al centro di qualunque analisi del buon funzionamento dei sistemi economici nonché dei Trattati dell’Unione Europea: diritti di proprietà, per definizione uguali per tutti, livellamento del campo di gioco, concorrenza e merito.
Un esempio che tutti conoscono. Dai noi spesso le amministrazioni non riescono a fare una seria pianificazione del territorio e a far funzionare un’organizzazione per il tempestivo rilascio delle autorizzazioni e per i controlli che sia coerente con quella pianificazione. Il risultato è che le persone si arrangiano con piccoli favori, con piccola e grande corruzione.
Gli italiani non sono intrinsecamente più corrotti di altri popoli. Hanno un’amministrazione che funziona peggio che altrove. E funziona peggio perché le istituzioni politiche sembrano fatte apposta per non decidere.
Abbiamo una legge elettorale che obbliga a fare coalizioni, spesso complesse e litigiose. I governi hanno orizzonti temporali brevissimi. In queste condizioni, manca un centro di responsabilità, qualcuno cui l’opinione pubblica possa attribuire meriti e colpe su un orizzonte temporale che non sia quello della settimana o del mese. Con gli orizzonti brevi e la litigiosità della nostra politica non si riuscirebbe ad amministrare neanche un condominio.
Certo, sappiamo tutti che ci sono paesi, come la Germania, in cui le cose funzionano anche con leggi elettorali che sono sostanzialmente proporzionali. In Germania c’è grande stabilità – basti pensare che dal 1949 a oggi vi sono stati solo otto cancellieri, meno dei Presidenti degli Stati Uniti – e si fanno coalizioni che non litigano. Ma con tutta evidenza le cose non vanno così da noi. Quindi dobbiamo porvi rimedio ricorrendo a un’accorta ingegneria istituzionale.
Una seconda evidente causa di inefficienza è il bicameralismo perfetto. Il problema non è tanto il tempo necessario per approvare una legge, ma soprattutto le molte coalizioni di blocco che si possono formare in ogni commissione e in aula durante l’esame dei provvedimenti, coalizioni che sono spesso diverse fra Camera e Senato. Qualcosa di simile accade anche al Congresso americano, come testimoniano, ad esempio, il blocco della riforma sanitaria di Clinton o lo shutdown degli uffici federali nell’autunno 2013. Anche lì dunque a volte le cose sono molto complesse, ma la differenza è che lì il Presidente trae legittimazione dal voto popolare e non dallo stesso Parlamento. E’ dunque evidente che il bicameralismo perfetto, nell’ambito di un sistema parlamentare puro, è un fattore di inefficienza e scoraggia l’assunzione di decisioni.
Un ragionamento analogo si applica al tema della riforma del Titolo V. Anche in questo caso il problema è che dobbiamo ristabilire dei precisi centri di responsabilità. Altrimenti il privato è costretto ad arrangiarsi nelle pieghe della confusione fra livelli di governo.
Una rapida approvazione del pacchetto di riforme istituzionali è dunque essenziale per sostenere l’economia.
Lo è nel lungo periodo. Ma lo è anche nell’immediato, perché i mercati scontano ad oggi gli effetti delle riforme sulla crescita futura e sulla sostenibilità del debito. Le riforme ci aiutano dunque a immunizzarci dai formidabili rischi macroeconomici che girano per il mondo e che sembrano nuovamente generare reazioni di paura se non di vero e proprio panico nei mercati: dall’Ucraina, alla minaccia del terrorismo, al tapering della Fed, al conflitto fra i paesi del nord e la Grecia. Guardate i bollettini delle banche d’investimento internazionali: seguono con estrema attenzione a quello che noi stiamo facendo in materia di riforme istituzionali.
Tutti noi chiediamo all’Europa di fare di più per la crescita, tramite politiche monetarie e di bilancio espansive, e di farlo rapidamente. Lo chiediamo con grande forza nella convinzione che altrimenti è a rischio l’Euro e l’intero progetto europeo.
Condivido queste richieste e queste preoccupazioni. Ma aggiungo che ciò che possiamo fare noi nelle prossime settimane, approvando le riforme della Costituzione e della legge elettorale, non è meno importante per la crescita di ciò che possono fare Juncker e Draghi in Europa.
Testo estratto dall’intervento di Giampaolo Galli all’assemblea del gruppo PD alla Camera – 7 gennaio 2015