Una procedura d’infrazione è un procedimento promosso nei confronti di uno Stato membro per mancato recepimento di direttive nell’ordinamento nazionale o per violazione del diritto comunitario.[1] In questi casi l’articolo 258 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) riconosce alla Commissione Europea la possibilità di avviare una procedura che si articola in due fasi.[2]
La prima, detta “precontenziosa”, inizia con l’invio allo Stato membro di una lettera di messa in mora, nella quale la Commissione riporta le cause dell’inadempimento della normativa europea richiedendo al riguardo dei chiarimenti.[3] Se questi non sono ritenuti sufficienti, la Commissione invierà successivamente un parere motivato per formalizzare più dettagliatamente l’accusa e invitare il paese ad adottare tutte le misure necessarie per correggere il proprio comportamento.
Se lo Stato non adempie, la Commissione può portare il caso dinanzi la Corte di Giustizia Europea (di qui in avanti la “Corte”), dando avvio alla seconda fase della procedura (detta “giudiziaria”). La Corte si pronuncerà sul caso emettendo una sentenza dichiarativa che potrà rigettare o confermare l’inadempimento. In quest’ultimo caso lo Stato sarà tenuto a conformarsi alla sentenza e a porre fine all’abuso. Laddove ciò non accada, l’articolo 260 del TFUE dà la possibilità alla Commissione di adire nuovamente la Corte, richiedendo in questo caso che vengano imposte sanzioni in capo allo Stato inadempiente. Le sanzioni possono essere inoltre somministrate dalla Corte già durante il primo giudizio, purché il movente della procedura sia stato il mancato recepimento di una direttiva.[4]
Lo stato delle procedure per l’Italia e il confronto europeo
Le evidenze sulle procedure d’infrazione nei confronti dell’Italia presentano alcuni elementi di preoccupazione. La Figura 1 mostra infatti l’evoluzione nel tempo del numero di procedure attive per l’Italia, confrontandola con la media dell’Unione Europea e con i principali Stati membri.[5] Emerge chiaramente come da fine 2017 il numero di procedure attive si sia assestato per l’Italia su un trend crescente, passando da 62 procedure aperte alla fine del 2017 al dato odierno di 82 (+32 per cento), che colloca l’Italia al settimo posto tra i paesi UE.[6] Tale aumento inverte una tendenza positiva che si era registrata nella prima parte dello scorso decennio. L’Italia, infatti, partendo da una situazione di ampia distanza rispetto agli altri grandi paesi europei, dal 2011 al 2017 aveva sostenuto uno sforzo rilevante di riduzione delle procedure pendenti, raggiungendo quasi la media europea alla fine del 2017.
Inoltre, non solo le procedure a carico dell’Italia hanno continuato ad aumentare a partire dal 2017, ma in un certo senso ne è aumentata anche la “gravità”. Un modo per cogliere questa caratteristica è quello di guardare al numero di procedure attive portate all’attenzione della Corte, ovvero quelle per cui è stato presentato ricorso e quelle per cui è stata emanata una sentenza (e che sono in attesa di adempimento da parte dello Stato). Sotto questo profilo, che è sicuramente il più rilevante, il confronto europeo è impietoso nei confronti dell’Italia (Figura 2). L’Italia guida la classifica con 22 procedimenti davanti a Grecia (20), Spagna (15) e Polonia (13). Francia e Germania occupano invece rispettivamente il 14esimo e il quinto posto di questa graduatoria.
Per capire come siamo arrivati a questo punto, la Figura 3 rappresenta l’evoluzione storica dei casi riguardanti l’Italia rinviati dinanzi alla Corte da parte della Commissione o conclusisi con una sentenza in attesa di adempimento (sia in primo che in secondo grado). Anche da questa figura emerge il calo nel numero di casi nella prima parte dello scorso decennio.[7] In particolare, la riduzione dal 2011 al 2016, punto di minimo della serie storica, è stata del 55 per cento. Tuttavia, a partire dal 2016 l’Italia si è ricollocata su un trend crescente, con un aumento ad oggi del 57 per cento.
Possiamo quindi dire che dal 2017 l’Italia si è collocata su un sentiero di peggioramento in termini sia della quantità che della gravità delle procedure d’infrazione.
Le materie dei casi d’infrazione
La Figura 4 mostra l’evoluzione del numero di infrazioni attive per alcune materie dal 2011 ad oggi.[8] Anche da questi dati emerge la sensibile diminuzione nel periodo 2011-2016 con riferimento a tutte le materie considerate, con percentuali di calo che vanno dal 50 per cento dei Trasporti al 90 per cento per i casi di Lavoro e Affari Sociali, quasi azzerati rispetto all’inizio dello scorso decennio. Per quanto riguarda l’Ambiente, la categoria che detiene di gran lunga il primato rispetto alle procedure aperte, il calo nel periodo 2011-2016 è stato del 60 per cento, con un passaggio da 33 casi pendenti a 13. Al contrario, a partire dalla fine del 2016 la risalita nel numero dei casi fino ad oggi è principalmente ascrivibile a Fiscalità e Dogane (+50 per cento) e Trasporti (+120 per cento), nonché ad altre categorie non rappresentate all’interno del grafico (es. Energia e Affari Interni), mentre per quanto riguarda l’Ambiente i casi sono aumentati del 30 per cento.
Alla luce dell’andamento rappresentato nella Figura 4, la Figura 5 presenta la ripartizione odierna per materia delle procedure d’infrazione pendenti a carico dell’Italia, confrontandola con la composizione relativa delle procedure aperte a livello UE.[9] In generale, le frequenze relative nel nostro paese risultano largamente in linea con quelle europee. Si noti ad esempio come la tematica ambientale sia diffusa non solo a livello italiano, così come i casi nel settore “Trasporti”. Le due categorie principali per le quali il nostro paese presenta invece una frequenza relativa maggiore rispetto al resto dell’UE sono l’area “Concorrenza e Aiuti di Stato” e l’area “Fiscalità e Dogane”.
Le sanzioni somministrate all’Italia e il confronto europeo
Sull’Italia pendono al momento sei sentenze di seconda condanna ai sensi dell’art. 260, di cui la metà relative al settore ambientale e la restante metà al mancato recupero di aiuti di Stato (Tav. 1). Nel dettaglio le sentenze riguardano:
- il mancato recupero di aiuti di Stato concessi a favore dell’occupazione (sentenza C-496/09).[10] Si tratta di sgravi contributivi riconosciuti a favore di imprese che assumevano disoccupati con contratti di formazione e lavoro. La Commissione ne ha riconosciuto lo status di aiuto e dichiarata l’illegittimità da oltre vent’anni con la Decisione 2000/128/CE. L’Italia però non ha recuperato integralmente gli aiuti dalle imprese che ne avevano beneficiato e la Corte è dovuta intervenire con due sentenze, una di prima condanna nel 2004 e una di seconda condanna nel 2011. Il secondo intervento della Corte è stato motivato dal fatto che, nonostante la prima sentenza avesse imposto il recupero integrale dei circa 280 milioni di aiuti erogati, appena 52 erano stati fino a quel tempo recuperati.
- il tema delle discariche abusive (sentenza C-196/13).[11] Nel 2007, durante il primo giudizio, la Corte ha constatato come in Italia fossero presenti ben 218 discariche irregolari, ossia prive delle necessarie autorizzazioni per operare in conformità con la disciplina europea sui rifiuti.[12] Al tempo della seconda sentenza, emanata nel 2014, le discariche abusive presenti in Italia erano ancora 198, delle quali 14 contenenti rifiuti pericolosi, spingendo di conseguenza la Corte a sanzionare l’Italia al pagamento di un’ammenda;
- il settore dei rifiuti nella regione Campania, non in linea con gli standard europei per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti (C-653/13).[13] La sentenza di seconda condanna ha infatti accertato nel 2015, a cinque anni dalla prima, il perdurare dell’inadempimento.[14]
- il mancato recupero di aiuti di Stato concessi a favore di alcune imprese di Venezia e Chioggia (C-367/14).[15] Si tratta di riduzioni e sgravi di oneri sociali che l’Italia ha accordato tra il 1995 e il 1997, e che la Commissione ha riconosciuto come aiuti in una Decisione del 1999, nella quale si richiedeva il loro recupero integrale. L’Italia non ha però dato seguito alla decisione ed è stata condannata dalla Corte in primo grado nel 2011 e in secondo nel 2015;
- il problema delle acque reflue urbane (C-251/17).[16] Nell’ambito della prima sentenza emanata nel 2012, l’Italia è stata condannata a causa di 109 agglomerati urbani che erano sprovvisti di reti fognarie per la raccolta e il trattamento delle acque reflue conformi alla Direttiva 91/27/CEE. La sentenza di seconda condanna è invece arrivata nel 2018, poiché dei 109 agglomerati da mettere a norma ancora 74 risultavano non conformi alla disciplina europea, nonostante la prima sentenza richiedesse all’Italia di adempiere entro il 2016;
- l’ultima sentenza, emanata un anno fa, condanna invece l’Italia per non aver recuperato integralmente gli aiuti di Stato concessi a favore di imprese alberghiere della Sardegna, pari a circa 13,7 milioni di euro (C-576/18).[17] Nella seconda sentenza di condanna la Corte ha sottolineato come una quota consistente di aiuti fosse stata effettivamente recuperata rispetto a quanto constatato nell’ambito del primo giudizio; tuttavia, la Corte ha rigettato la tesi avanzata dall’Italia secondo cui la parte di aiuti ancora non riacquistata fosse impossibile da recuperare.
Dal 2012 ad oggi, le sentenze di seconda condanna inflitte all’Italia sono costate più di 750 milioni di euro, di cui 152 versati per sanzioni forfettarie e circa 600 a titolo di penalità (Fig. 6). Nel confronto europeo siamo di gran lunga il paese che ha dovuto versare la cifra maggiore: Grecia (350 milioni), Spagna (122 milioni) e Francia (91 milioni) si collocano infatti ben distanti, rispettivamente in seconda, terza e quarta posizione.[18] Inoltre, questo dato rileva maggiormente se teniamo presente che non tutti gli Stati membri sono stati condannati al pagamento di sanzioni per sentenze di seconda condanna, ma appena 11 sono stati tenuti a farlo.
Tornando all’Italia, la Figura 7 mostra come, tra le sei complessive, le sentenze più onerose siano state quelle relative alle discariche abusive e all’emergenza rifiuti in Campania: dal 2015 ad oggi, infatti, la prima ha comportato esborsi per oltre 232 milioni, mentre la seconda per oltre 217 milioni. Sotto il profilo temporale, i pagamenti sono aumentati notevolmente a partire dal 2015 a causa dell’aumento delle sentenze a carico dell’Italia, passate da una sola nel 2014 a quattro nel 2015. Il picco è stato nel 2018 quando l’Italia ha dovuto versare 149 milioni di euro. Attualmente, i pagamenti risultano leggermente ridotti e pari a 75 milioni. Come si vede nella Figura 7, i pagamenti relativi alle singole sentenze sono stati molto variabili da un anno all’altro, per due distinte ragioni. La prima è che l’Italia non sempre paga con regolarità le penalità che deve all’Europa.[19] La seconda è che le penalità somministrate dalla Corte contemplano il più delle volte la possibilità di subire decurtazioni in base allo stato di avanzamento nell’adempimento.[20]
[1] I casi di mancato recepimento contemplano anche le mancate comunicazioni di recepimento, mentre quelli di violazione del diritto anche le erronee trasposizioni di direttive.
[2] L’inadempimento alla normativa europea di uno Stato membro può essere riscontrato autonomamente dalla Commissione o attraverso segnalazioni di terzi; in entrambi i casi la Commissione non è obbligata ad iniziare una procedura in virtù degli ampi margini di discrezionalità che gli sono riconosciuti dai Trattati.
[3] La fase precontenziosa è solitamente preceduta da tentativi di risoluzione extra-giudiziale della controversia attraverso un meccanismo di interlocuzione tra Commissione e Stato membro noto come “EU-Pilot”.
[4] L’articolo 259 del TFUE riconosce anche agli Stati membri la facoltà di avviare una procedura d’infrazione, anche se di rado i paesi hanno usufruito di tale possibilità. In questi casi la procedura rimane la stessa, salvo che lo Stato proponente dovrà in primo luogo rivolgersi alla Commissione per riconciliare la disputa attraverso un contradditorio tra le parti che terminerà nell’emissione di un parere non vincolante da parte della Commissione stessa.
[5] Il dato presentato si riferisce al totale delle procedure attive, indipendentemente dallo stadio della procedura da esse raggiunto.
[6] Le prime posizioni sono occupate da Spagna (104), Regno Unito (94) e Grecia (90), le ultime da Danimarca (29), Lituania (40) e Estonia (41).
[7] Anche se, è opportuno ricordarlo, la sentenza emessa dalla Corte ai sensi dell’art. 258 del TFUE ha esclusivamente valore dichiarativo e non comporta l’irrogazione di sanzioni.
[8] Le materie mostrate nella Figura 3 sono state selezionate sulla base della percentuale di casi della materia nel periodo considerato rispetto al totale dei casi nel periodo considerato. Sono state incluse le materie per cui tale percentuale risulta maggiore del 5 per cento.
[9] Si evidenzia come, a causa della differente fonte dei dati (Commissione Europea vs Dipartimento per le Politiche Europee della Presidenza del Consiglio) e della conseguente diversa catalogazione delle procedure, il perimetro di alcune delle categorie presentate nella Figura 4 sia marginalmente diverso rispetto a quelle della Figura 3.
[10] Si veda: http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=114584&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=8605872.
[11] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2014-12/cp140163it.pdf.
[12] Nello specifico le direttive 75/442/CEE, 91/689/CEE e 1999/31/CE.
[13] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2015-07/cp150086it.pdf.
[14] Nella sentenza viene inoltre sottolineato il problema delle “ecoballe”, ossia dei rifiuti storici accumulati dalla regione, al tempo pari a sei milioni di tonnellate ancora da smaltire.
[15] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2015-09/cp150103it.pdf.
[16] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2018-05/cp180074it.pdf.
[17] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-03/cp200029it.pdf.
[18] I dati sui pagamenti effettivi nel 2020 sono disponibili per l’Italia ma non ancora per gli altri paesi europei. Pertanto, i dati sulle sanzioni corrisposte per il 2020 sono stati stimati attraverso le sentenze di condanna della Corte, ipotizzando l’assenza di eventuali deduzioni per adempimenti intermedi.
[19] È il caso, ad esempio, della sentenza del 2015 relativa al recupero degli aiuti di Stato concessi alle imprese di Venezia e Chioggia. Come si è visto la sentenza richiedeva all’Italia di corrispondere una somma forfettaria da 30 milioni (pagata regolarmente nell’anno di emanazione della sentenza) e una penalità semestrale da 12 milioni. Nel 2016 però, l’Italia non ha corrisposto nessuna delle due rate di penalità dovute, rinviandone infatti il pagamento al 2017 (anno in cui invece non è stata pagata la quarta penalità semestrale).
[20] Su questo fronte, un esempio è rappresentato dalla sentenza relativa al tema delle discariche abusive. Come visto, l’Italia era stata condannata al pagamento di una penalità semestrale da 42,8 milioni, da corrispondere per ciascun semestre di ritardo nell’esecuzione della sentenza della Corte. La stessa sentenza, tuttavia, prevedeva che la penalità si sarebbe ridotta rispettivamente di 400 mila e 200 mila euro per ogni discarica di rifiuti pericolosi e non pericolosi messa a norma durante i vari semestri. E infatti, i pagamenti sono passati dai 39,8 milioni versati nel 2015 come prima rata di penalità agli 8,6 milioni versati nel 2020 come decima rata di penalità.