Forse c’è un modo per riformare il nostro codice del lavoro, evitando scontri all’arma bianca che rischiano di bloccare tutto. L’idea è la seguente. La legge definisce una nuova tipologia di contratto a tempo indeterminato in cui, nel caso di licenziamento giudicato illegittimo, la sanzione è non più la reintegra ma un indennizzo monetario crescente con l’anzianità di servizio come sembra essere nelle intenzioni del governo. Per qualche tempo, questo nuovo contratto convive con il contratto a tempo indeterminato oggi in vigore. A seguito della riforma, le imprese potrebbero quindi assumere con uno dei due contratti. Se assumono con il contratto senza reintegra dovranno però pagare di più. Quanto di più? La legge potrebbe affidare il compito di fissare il quantum alla contrattazione collettiva, nazionale o aziendale, salvo definire, nelle more, una maggiorazione standard ad esempio del 5%. La contrattazione avrebbe il vantaggio di obbligare tutte le parti a rivelare le loro vere preferenze. Se i sindacati ritengono che l’abolizione della reintegra sia davvero un vulnus grave ai diritti non si accontenteranno del 5% fissato per legge e chiederanno il 10 o il 15%. Le imprese accetteranno questa maggiorazione se pensano che l’abolizione della reintegra valga davvero questo aggravio di costo. Una volta definito il quadro normativo e contrattuale, impresa e lavoratore sono liberi di incontrarsi scegliendo l’uno o l’altro contratto. Un’impresa può decidere che in generale o per certe mansioni la maggiorazione definita dal contratto è eccessiva e quindi continuerà a offrire solo contratti tradizionali. Simmetricamente un lavoratore può decidere che, laddove venga offerto, è meglio accettare un contratto che paga di più, ma è meno sicuro. Data l’attuale grave situazione della disoccupazione, è ben possibile che un lavoratore non abbia in pratica la possibilità di scegliere e sia costretto ad accettare l’unico contratto, con o senza reintegra, che gli viene proposto. Questo non dovrebbe essere un problema perché comunque è tutelato dall’accordo sindacale che ha fissato a monte la maggiorazione.
Possono verificarsi due casi estremi. Il primo è quello in cui nessuna azienda propone i nuovi contratti. In questo caso avremo capito che per le aziende l’abolizione della reintegra non vale molto e la faccenda si chiude lì, a meno che i lavoratori non facciano pressione sul sindacato per avere comunque l’opzione di una maggiorazione anche se meno generosa. L’altro estremo è quello in cui le imprese offrono solo contratti senza reintegra. In questo caso si capirebbe che per le imprese la flessibilità vale di più della maggiorazione fissata nel contratto e questa circostanza darà ai sindacati la forza contrattuale per chiederne una revisione al rialzo.
Si potrebbe obiettare che oggi i costi delle imprese vanno ridotti non certo aumentati e che un meccanismo di contrattazione in cui non sono rappresentati giovani e disoccupati non porta al risultato ottimale. Questo è vero e dunque il governo dovrebbe svolgere un ruolo di moral suasion, in nome degli esclusi, ad esempio fissando la maggiorazione iniziale non al 5%, ma ad un livello più basso ed esentandola da tasse e contributi. Un altro rimedio a questa possibile distorsione è quello di offrire non solo ai nuovi assunti, ma a tutti i lavoratori la possibilità di passare al nuovo contratto, salvo consenso dell’azienda. In questo modo una parte degli insiders farà pressione affinché la maggiorazione non sia troppo alta e tale da scoraggiare le imprese dall’accettare i nuovi contratti. Sul piano politico il costo della maggiorazione va confrontato con le contropartite che potrebbero risultare necessarie per trovare un accordo in Parlamento. A quanto ammonterà l’indennizzo monetario che sostituirà la reintegra? Posto che il nuovo contratto viene da molti definito “unico”, cosa ne sarà dei contratti che oggi garantiscono la flessibilità in entrata? E quanto costerà alle imprese il nuovo ammortizzatore universale? Anche al governo conviene un approccio graduale affidato alla libera contrattazione perché esso non si può permettere una riforma del lavoro che sia giudicata negativamente dalle imprese, come accadde per la legge Fornero.
Un’obiezione di segno opposto lamenta che questo è un meccanismo di autoselezione che discrimina i lavoratori collocandoli in due categorie: quelli bravi che chiederanno il nuovo contratto e i “fannulloni” che vorranno tenere le vecchie tutele. Non pare una discriminazione di cui preoccuparsi. Anzi, il meccanismo è virtuoso perché tanti fannulloni si rimboccheranno le maniche e diventeranno più produttivi per migliorare la busta paga. Ne guadagneranno la produttività del sistema e il reddito delle persone.
Dalla rassegna di oggi: Sull’articolo 18 lasciamo spazio alla contrattazione tra le parti