In una votazione plebiscitaria, come quella di mercoledì sera sulla riforma della class action, pochi deputati hanno preso le distanze, astenendosi dal voto. Uno di questi è Giampaolo Galli, ex direttore generale di Confindustria e parlamentare del Pd.
Al Sole 24 Ore ne spiega le ragioni. Non prima però di avere fatto una premessa cui tiene: «non si tratta di una presa di posizione contro Matteo Renzi, sul quale invece tengo a dire che il mio giudizio è ampiamente positivo. Considero Renzi una chance straordinaria per trarre l’Italia fuori dalla crisi non solo economica di questi anni»
Onorevole, il consenso unanime alla class action 2.0 pone un problema reale sull’assenza di una minima cultura d’impresa nella classe politica in generale e nel Partito democratico in particolare?
Guardi, un voto come quello di mercoledì sera coinvolge tutte le forze politiche, non solo il Pd. Da Forza Italia a Ncd non c’è stato neppure un abbozzo di riflessione sulle conseguenze che saranno prodotte dalla riforma. Questo mi sembra altrettanto grave: la fretta che ha portato a liquidare in poche ore alla Camera una legge che rischia di avere un impatto pesante sulle imprese.
Non c’è un eccesso di drammatizzazione nell’allarme suo e di Confindustria?
Non credo proprio. Fare impresa nel nostro Paese è difficile, lo sappiamo. Tanti i costi aggiuntivi che determinano un vero gap competitività, dall’invasività della burocrazia, alla lunghezza e incertezza della giustizia civile. Adesso, se al Senato non si rimedierà, si aggiunge anche questa versione dell’azione collettiva che non colpisce solo le grandi imprese, come ho sentito dire l’altra sera alla Camera nel breve dibattito che ha preceduto il voto, ma anche una start up, magari particolarmente innovativa, che potrebbe finire a gambe all’aria per un utilizzo strumentale dell’azione collettiva.
Ma non si tratta di rendere la disciplina italiana della class action più vicina alle indicazioni comunitarie e al modello degli Stati Uniti?
Beh, non tutto quello che arriva dagli Stati Uniti è buono per forza. Invito a leggere, tanto per farsene un’idea, un romanzo e non un saggio accademico: «Il re dei torti» di John Grisham. Una buona e non convenzionale introduzione al sottobosco e alle strumentalizzazioni delle class action americana.
Quali le sembrano i problemi più rilevanti che porrà l’applicazione della nuova azione collettiva?
Innanzitutto va detto che il testo uscito dalla commissione Giustizia è molto migliorato rispetto alla versione iniziale. Ma sono ancora troppi i punti critici. Tra i più rilevanti voglio sottolineare la possibilità di adesione successiva alla condanna. Una previsione che aumenterà in maniera considerevole i costi a carico delle imprese e, facendo crescere l’incertezza sulle somme da liquidare, renderà anche più arduo formulare ipotesi di transazione.
Ci sono poi i compensi premiali agli avvocati…
Una misura che punta chiaramente a incentivare il ricorso all’azione collettiva facendo leva sui 250.000 avvocati iscritti all’Albo che, in questo modo, avranno una spinta economica nell’andare a caccia di mandati. Un volano al contenzioso di cui non credo si sentisse la necessità, considerate anche le condizioni del processo civile.
Visto l’esito della Camera quali chance ci sono di cambiamenti al Senato?
Di sicuro la situazione adesso è complicata. Credo sia assolutamente necessario un intervento del Governo. Bene ha fatto ieri Squinzi a mettere sotto accusa una legge che rischia di attenuare gli effetti positivi di misure fondamentali come il jobs act. Ma non solo. Se fosse vero che la class action, come sostenuto alla Camera, può essere utilizzata anche in ambito previdenziale mi sembrano evidenti i problemi per i conti pubblici.
Intervista di Giovanni Negri
Scarica il pdf dalla rassegna: “Sulla class action troppa fretta, il testo cambi al Senato”