Sul bilancio del governo Renzi in campo economico si contrappongono due tesi opposte. Secondo una tesi cara alla sinistra, ma che trova ampia eco anche a destra, il governo Renzi avrebbe continuato con le politiche di austerità dei governi precedenti e ciò spiegherebbe i modesti risultati sull’economia.
Secondo questa tesi, se si fosse speso di più, specie per investimenti, la crescita sarebbe più robusta. Per alcuni economisti, ad esempio per Marco Fortis, sulla crescita avrebbero avuto un impatto negativo anche i tagli alla spesa corrente. Secondo la tesi opposta, sostenuta, ad esempio, da Luca Ricolfi, il governo avrebbe seguito una classica ricetta keynesiana, fatta di più deficit e più spesa, il che avrebbe prodotto un peggioramento dei conti dello Stato, uno speculare miglioramento dei conti di famiglie e imprese, ma una ripresa dell’economia modesta perché l’esperienza dimostrerebbe che crescono di più i paesi che riducono l’interposizione pubblica nell’economia. In qualche misura queste diverse letture risentono legittimamente di diverse filosofie economiche, più o meno lontane dal paradigma keynesiano.
Colpisce però che vi siano differenze tanto marcate nell’analisi dei dati, i quali, a nostro avviso, raccontano una realtà in qualche modo intermedia, che non consente di aderire né all’una né all’altra tesi. In questi anni, si è ridotto il deficit, ma ad un ritmo inferiore a quello che era stato previsto inizialmente – questo nell’intento di evitare che un eccesso di austerità bloccasse la fragile ripresa in atto. L’intermediazione del settore pubblico si è leggermente ridotta, ma si è scelto di non ridurla tanto quanto i risultati della spending review avrebbero consentito (circa 25 miliardi a tutto il 2016), perché si sono aumentate alcune voci di spesa ritenute meritevoli, quali scuola, ammortizzatori sociali e sicurezza.
Guardando i numeri, troviamo che l’indebitamento netto della PA, attestatosi attorno al 3% sino al 2014, è sceso al 2,6% nel 2015 e dovrebbe scendere ulteriormente nel 2016. Si può dire, come dice la Commissione Europea, che la riduzione è stata insufficiente, ma non si può certo dire che si sia aumentato l’indebitamento per fare spesa in deficit. Quanto all’intermediazione complessiva dello Stato, essa è scesa comunque la si misuri. In particolare, le uscite correnti al netto degli interessi – calcolando come spesa il bonus da 80 euro – hanno registrato una riduzione dal 42,6% del biennio 2013-2014 al 42,1% nel 2015, e anche queste dovrebbero scendere ulteriormente nel 2016. La pressione fiscale è scesa di un punto, dal 43,6% del 2013 al 42,6% nel 2016, se valutata al netto del bonus da 80 euro. È scesa di oltre un punto e mezzo, al 42%, se il bonus viene considerato, come si dovrebbe, una riduzione di imposte. Al di là, infatti, delle convenzioni contabili, nella sostanza economica, il credito d’imposta sui lavoratori dipendenti a basso reddito, sfortunatamente chiamato bonus, è una riduzione di tasse e rappresenta un taglio del cuneo fiscale sul lavoro, ossia della differenza fra il costo di un dipendente per l’azienda e il netto percepito in busta paga.
Chi sostiene che le tasse sarebbero addirittura aumentate si focalizza sugli aumenti delle aliquote sul risparmio, ma trascura che l’onere di queste misure (valutato in 3,5 miliardi a regime) è largamente sopravanzato dalle tante misure di riduzione fiscale di cui hanno beneficiato sia le imprese (in particolare, abolizione dell’Irap-lavoro per 4 miliardi, super-ammortamento per circa un miliardo e riduzione dell’Ires per 800 milioni) sia le famiglie (Imu-Tasi per 3,5 miliardi, detassazione dei premi di produttività per un miliardo, oltre al bonus da 80 euro per un valore complessivo di quasi 10 miliardi).
In conclusione, sono state operate scelte difficili sotto il profilo della ricomposizione delle voci del bilancio pubblico, ma abbastanza prudenti dal punto di vista macro – il che forse ha deluso chi si aspettava cambiamenti radicali, come quelli che sono stati realizzati, ad esempio, nel mercato del lavoro con il Jobsact. È difficile argomentare che quelle realizzate siano le politiche ideali. Ma, ribaltando l’onere della prova, chi sostiene il contrario non può non misurarsi con contro-argomenti assai seri. I cultori del paradigma keynesiano, secondo i quali avremmo dovuto fare più spesa e più deficit, devono fare i conti con il tema del rischio finanziario, alla luce dell’alto debito pubblico, e con il rischio di isolamento dall’Europa. Dal lato opposto, chi avrebbe voluto meno spesa e meno deficit ha l’onere, non facile, di dimostrare che questa politica non avrebbe avuto l’effetto di soffocare sul nascere una debole ripresa.