Il nuovo scostamento di bilancio, per ben 40 miliardi, è probabilmente necessario per ristorare chi ha subito danni e soprattutto per evitare che un numero eccesivo di imprese esca dal mercato, producendo ferite nel tessuto produttivo che sarebbero poi davvero difficili da rimediare.
Ripropone però l’interrogativo su cosa succederà al nostro debito pubblico. Quello che sappiamo per certo è che la previsione del precedente governo di un’iniziale piccola discesa nel 2021 non si verificherà e anzi vi sarà un aumento. Il DEF appena varato dal Consiglio dei Ministri quantifica il debito 2021 nel 159,8 per cento del Pil, 4 punti al di sopra del livello del 2020; l’avvio della discesa del rapporto debito/Pil è dunque rinviato al 2022. Negli anni seguenti la discesa dovrebbe proseguire ed essere tale da consentire di ritornare attorno ai livelli pre-covid, 135 per cento, in una decina di anni. Naturalmente, questo scenario presuppone una lunga serie di ipotesi favorevoli. Proviamo ad elencarle, se non altro per memoria. La crescita, grazie anche agli investimenti del NGEU, dovrebbe essere piuttosto elevata, il che significa che nel prossimo decennio non ci saranno nuove crisi e che la dinamica della produttività italiana si allineerà a quella dell’area dell’euro, cosa che non accade da tre decenni. Il costo medio del debito pubblico dovrà scendere ulteriormente dal livello già bassissimo del 2020 (2,4 per cento) al 1,7 per cento nel 2024, il che significa che rimarranno bassi, su tutte le scadenze, i tassi di interesse dell’area dell’euro e che si ridurrà lo spread Italia. Infine si richiede che il disavanzo si avvicini alla soglia del 3 per cento entro il 2024. Ciò comporta altre svariate ipotesi favorevoli. La principale è che tutti i frutti della crescita, in termini di maggior gettito, siano interamente devoluti alla riduzione del deficit, cosa che in passato non si è quasi mai verificata. Devono inoltre essere attuate e risultare efficaci le misure previste, in termini invero assai generici, per la riduzione del deficit; razionalizzazione della spesa, contrasto all’evasione fiscale, nuove imposte ambientali sulla base di future eventuali direttive UE, tassazione delle multinazionali sulla base di eventuali accordi in sede Ocse.
Pochi giorni fa, l’ex ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble si è chiesto se dopo la pandemia da Covid vi sarà la pandemia da debiti pubblici e se il debito tedesco sarò sostenibile. Il fatto notevole è che debito tedesco sta oggi attorno al 70 per cento del Pil e, secondo le proiezioni del Fondo Monetario, è destinato a ridursi nei prossimi anni fino a tornare attorno al 60 per cento nel 2024. Per quello stesso anno, il debito italiano sarebbe al 154 per cento. Dunque si prospetta a breve una divergenza di ben oltre 90 punti fra il debito della Germania e quello dell’Italia. Divergenza analoghe si verificheranno con i paesi cosiddetti frugali. Divergenze notevoli, anche se meno accentuata, si verificheranno anche rispetto Francia e Spagna. Nel post-pandemia non sarà facile evitare nuove tensioni, politiche e finanziarie, fra paesi dell’Eurozona.
Guardando fuori dall’area dalla UE, il Regno Unito, che stava all’85 per cento del Pil nel 2019, ha fatto una formidabile espansione di bilancio (+11 punti di Pil) nel 2020, ma ha un debito che per ora rimane molto più basso del nostro, 104 per cento a fine 2020. Qualche consolazione ci può forse venire dagli Stati Uniti che avevano un debito già piuttosto alto nel 2019 (108 per cento), sono saliti al 127 per cento nel 2020 e dovrebbero salire ancora attorno al 130 per cento nel 2021 e negli anni seguenti. Negli Stati Uniti la maggior parte degli economisti, certamente tutti quelli vicini all’amministrazione Biden, dicono che un debito alto non è un problema perché i tassi di interesse sono destinati a rimanere bassi.
Tutto bene dunque? Non proprio e almeno per due motivi. Il primo è che la previsione sui tassi di interesse si è già rivelata sbagliata: i tassi a lunga americani erano allo 0,6 per cento nell’estate scorsa e sono saliti, specie dopo l’annuncio del piano Biden, all’1,6 per cento. Il secondo motivo è che gli economisti americani ragionano su un paese, gli Stati Uniti, che, emette una valuta utilizzata in tutto il mondo per i pagamenti e come valuta di riserva. Quindi il resto del mondo è sempre interessato a detenere titoli in dollari. Lo stesso non vale per l’euro, come ha ben spiegato lo stesso Draghi in una recente conferenza stampa. E comunque se qualcuno vuole investire in euro, ha sempre la possibilità di investire i titoli considerati più sicuri di quelli italiani a meno questi non abbiano un rendimento notevolmente più alto e tale da compensare l’eventuale rischio. In conclusione, dobbiamo chiederci se non sia meglio dire fin d’ora agli italiani che superata la pandemia ci sarà una lunga strada ad fare, non semplice, ma neanche impossibile.