Al di là di quanto è stato scritto in queste settimane, non comprendiamo come si possa dire che la proposta di riforma avanzata dall’Inps affronti la questione dell’equità fra le generazioni. Essa offre benefici solo alla generazione fra i 55 e i 67 anni con i due strumenti del reddito minimo a 500 euro per gli over 55 e del pensionamento flessibile dall’età di 63 anni.
Il finanziamento verrebbe dal taglio delle pensioni retributive oltre i 3.500 euro lordi (che contribuirebbero per importi relativamente modesti) e dalla revisione di alcuni trattamenti assistenziali. Ai giovani non andrebbe un solo euro; anzi nel loro insieme queste misure comporterebbero un aumento del disavanzo, per importi stimati dall’Inps fra 1 e 3-4 miliardi da qui al 2025, il che vuol dire un maggior onere futuro a carico dei giovani.
Inoltre, la penalizzazione delle pensioni sopra i 3.500 euro non avverrebbe sulla base del ricalcolo contributivo, che secondo alcuni sarebbe lo strumento per realizzare l’equità tra le generazioni. L’Inps propone infatti di intervenire sulle pensioni in essere con un unico criterio di ricalcolo, quello dell’età a cui una persona è andata in pensione – con un taglio di circa il 3% per ogni anno di anticipo rispetto all’età considerata normale per il pensionamento di vecchiaia. Ad esempio, la pensione di una persona che abbia smesso di lavorare a 60 anni verrebbe tagliata di circa il 18%, in quanto oggi l’età “normale” di pensionamento è di 66 anni e 3 mesi. La penalizzazione avverrebbe immediatamente per le pensioni sopra i 5.000 euro e gradualmente, attraverso il blocco dell’indicizzazione, per le pensioni fra 3.500 e 5.000 euro.
Questo metodo di ricalcolo basato sull’età di pensionamento, pur praticabile, non ha quelle proprietà che rendevano attraente il ricalcolo contributivo: oltre a non realizzare l’equità fra generazioni, crea nuove distorsioni e fonti di contenzioso. Può accadere, infatti, che si tagli una pensione interamente maturata con i contributi versati e non se ne tagli una affatto coperta dai contributi. L’età di pensionamento è infatti solo una delle variabili che influenzano il montante contributivo individuale: conta anche l’età a cui una persona ha cominciato a lavorare e quanti contributi ha versato. La proposta può dunque andare bene a magistrati, professori universitari o alti dirigenti dello stato, che vanno in pensione ad età elevate, ma non a chi ha cominciato a lavorare a 16 anni e ha avuto una carriera dinamica che gli ha consentito di meritarsi una pensione dignitosa.
Il motivo che ha verosimilmente indotto il Presidente Boeri a mettere da parte il ricalcolo contributivo, suo cavallo di battaglia da molto tempo, è che all’Inps hanno chiaro ciò che ai frequentatori dei talk-show spesso sfugge: il ricalcolo è inattuabile perché l’Inps non dispone dei dati retrospettivi sui contributi e perché non si possono obbligare i pensionati a rintracciare cedolini di 50 e più anni addietro.
L’operazione proposta dall’Inps rimarrebbe comunque esposta alle due obiezioni di fondo che sono state avanzate al ricalcolo contributivo. La prima riguarda l’anziano pensionato che avrebbe fatto scelte diverse riguardo a lavoro e risparmio, se avesse saputo per tempo il suo destino. Per capire che questo è un tema di rilevanza costituzionale basta fare riferimento a valori cardine del nostro ordinamento, quali il principio di ragionevolezza o l’affidabilità e credibilità dello Stato. L’altra obiezione è che colpendo le pensioni sopra i 3.500 euro (circa 2.500 netti) si colpisce quella minoranza di italiani – per lo più lavoratori dipendenti – che hanno pagato tasse e contributi per tutta la vita. Il fatto che le pensioni sopra questa soglia siano poche centinaia di migliaia riflette in larga misura aliquote contributive ridotte per alcune categorie e decenni di storia segnata da evasione fiscale e contributiva di massa: molti hanno pensioni bassissime perché non hanno pagato i contributi, ma hanno accumulato cospicui patrimoni che consentono loro una vecchiaia agiata. La proposta colpisce dunque chi ha cominciato a lavorare presto e ha sempre pagato tasse e contributi. Ciò contribuirebbe, ma solo in piccola parte, a finanziare un pacchetto di misure assistenziali di per sé utili, ma configurate in maniera tale da sollevare molti dubbi. Perché ad esempio uno strumento di tutela dalla povertà solo per gli over 55 e non per tutti? E come si può evitare di dare il messaggio che l’Italia vuole tornare al sistema delle pensioni di anzianità, la cui abolizione ha certamente creato dei problemi, ma molto ha contribuito a rafforzare la sostenibilità economica del sistema pensionistico e, con essa, il merito di credito internazionale dell’Italia?
Nel complesso, la proposta dell’Inps appare come un esperimento assai complesso di ingegneria sociale che produce molti effetti redistributivi, non tutti desiderabili e certamente molto distanti da quello che è l’obiettivo di migliorare la condizione dei giovani.
Giampaolo Galli e Mauro Marè
Qui l’articolo in pdf dalla rassegna stampa de Il Sole 24 Ore.