L’economia cresce quando nascono più imprese di quante ne muoiano oppure quando quelle esistenti innovano in modo tale da crescere ad un ritmo maggiore di quello a cui decrescono le imprese non innovative. Nei confronti internazionali l’Italia non ha mai sfigurato dal punto di vista della capacità di creare nuove imprese. I segnali che abbiamo indicano che la voglia di inventare nuove imprese non è venuta meno, nonostante la durissima prova della crisi degli ultimi anni.
Il problema era e, a quanto sembra, rimane quello della difficoltà a crescere delle piccole imprese, nonché quello dello scarso numero di grandi imprese. In base ai dati più recenti, le aziende con meno di 250 addetti rappresentano circa l’80% dell’occupazione totale nel nostro paese, 10 punti percentuali in più rispetto alla media dei paesi dell’Unione Europea. Sono soprattutto le micro-imprese, con meno di 10 addetti, a fare la differenza: in Italia sono 4,2 milioni e impiegano 7,8 milioni di persone; si tratta del 47% dell’occupazione totale, a fronte del 29% della media europea. Quanto alle grandi imprese, queste sono quasi sparite negli ultimi trent’anni e si contano oggi sulle dita di una mano. Una manifestazione di questo stato di cose è la dimensione ancora asfittica della borsa di Milano.
Di fronte a questa realtà, va evitato l’errore di pensare che gli imprenditori siano completamente miopi o a tal punto ossessionati dalla paura di perdere il controllo sull’azienda da farsi sfuggire facili occasioni per crescere, innovare e in ultima analisi fare profitti. La realtà è che la bassa crescita delle nostre piccole imprese non sta tanto nei cosiddetti fattori culturali (come ad esempio il ruolo della famiglia), ma in fattori ambientali esterni alle imprese stesse. Un’analisi di Fulvio Coltorti sul campione Mediobanca mostra che la produttività per addetto e gli utili tendono a diminuire, anziché aumentare, al crescere della dimensione aziendale. Questo significa che, dal punto di vista del singolo imprenditore, paradossalmente spesso crescere non conviene. Allo stesso modo, spesso non conviene quotarsi in borsa: se così non fosse, non si capirebbe perché siano quotate solo un’ottantina delle oltre quattromila medie imprese del cosiddetto “quarto capitalismo”.
Un secondo errore da evitare, in effetti una conseguenza del primo, consiste nel pensare che, proprio in ragione dei fattori culturali, la politica economica sia impotente. Le cose da fare sono tante e si inscrivono in due filoni fondamentali. Il primo attiene agli effetti soglia che sono inseriti in quasi tutte le leggi che riguardano le imprese. Una miriade di misure di carattere fiscale, amministrativo e finanziario tendono a favorire le piccole dimensioni e a scoraggiare la crescita dimensionale. È necessario invece incoraggiare le imprese che scelgono di crescere, come avviene ad esempio con l’ACE, una misura che premia chi mette i soldi nella propria azienda, o con provvedimenti quali il superammortamento. Un secondo filone attiene ad una diversa tipologia di effetti soglia connessa alla considerazione sociale delle aziende. Come scrisse alcuni anni fa su Lavoce.info Riccardo Faini, un economista assai acuto e altrettanto compianto, occorre sfatare il mito, che ancora permea buona parte della nostra classe politica, “secondo cui la piccola impresa è di per sé un valore positivo, in quanto espressione di un capitalismo dal volto più umano, più consapevole delle problematiche ambientali e sociali e più radicata sul territorio. Non vi è nessuna evidenza che ciò sia vero. Rimane invece il fatto che oggi la piccola impresa è drammaticamente inadeguata di fronte alle sfide della globalizzazione e delle nuove tecnologie”. Il premier Matteo Renzi si è preso una bordata di critiche per aver presenziato alla quotazione di Ferrari alla borsa di Milano. Qualcuno ha anche detto che, invece di festeggiare l’evento, avrebbe dovuto chiedere al management di riportare in Italia la sede delle aziende della galassia Agnelli. Si è così cercato di accreditare ancora una volta l’idea che l’evasione si nasconda nella grande azienda. Anche questo non è vero. Vari studi dimostrano che l’evasione diminuisce al crescere delle dimensioni aziendali, perché aumentano i requisiti di trasparenza e le probabilità di accertamento, e che proprio questo è uno dei tanti fattori esterni che scoraggiano gli imprenditori a crescere. Le grandi imprese, capaci di affrontare le formidabili sfide dei mercati internazionali, sono potenti motori di crescita perché diffondono in tutta l’economia nuove tecnologie e soprattutto know-how tecnico e organizzativo. Non dobbiamo fare loro alcun favore, né dare aiuti di Stato, peraltro non consentiti, ma dobbiamo ascoltarle e comunque, come diceva Winston Churchill, smettere di considerarle solo come vacche da mungere.
Giampaolo Galli
L’Unità 12-01-2016