Comprensibilmente, la riflessione autocritica nel Partito Democratico si sta concentrando sulle grandi questioni che creano malessere in gran parte dei paesi ricchi: globalizzazione, rivoluzione digitale, diseguaglianze. In effetti, è su questi temi che bisogna ragionare se si vogliono capire fenomeni come la Brexit o la vittoria di Trump. Questi problemi esistono anche in Italia, ma non dobbiamo dimenticare che da noi si intrecciano con un problema più grande che è la nostra straordinaria anomalia in termini di mancata crescita.
Ormai da almeno un ventennio, la crescita economica in Italia è fra le più basse al mondo; ed è molto più bassa di quella degli altri paesi dell’Unione Europea e dell’Eurozona. Dal 1995 a oggi abbiamo accumulato un divario di crescita di ben 23 punti percentuali rispetto alla media dell’Unione Europea, ossia quasi 400 miliardi di euro in termini di mancato Pil e 180 miliardi di mancate entrate per le casse dello Stato. Se non vi fosse stato questo enorme divario, avremmo raggiunto, e di slancio superato, l’obiettivo del pareggio di bilancio, il nostro debito sarebbe da tempo su un trend discendente e sarebbe avanzata ancora una gran quantità di risorse che avremmo potuto utilizzare per rafforzare il nostro sistema di welfare e l’offerta di beni pubblici in generale.
Se poi consideriamo il Pil pro capite al fine di astrarre dalle diverse dinamiche della popolazione, scopriamo che l’Eurozona al netto dell’Italia cresce quasi come gli Stati Uniti. Fatto 100 il 1995, l’Eurozona, al netto dell’Italia, sta oggi a 131 e gli Stati Uniti a 135. L’Italia sta invece a 104, il che significa che il suo reddito pro capite è fermo al livello del 1997. Guardando agli ultimi anni, malgrado le molte riforme fatte che io ho sostenuto con convinzione e la ripresa che è in corso, r l’Italia sta ancora sotto i livelli pre-crisi di oltre 10 punti. Il resto dell’Eurozona si colloca invece 3 punti sopra, risultato che anche in questo caso è molto simile a quello degli Stati Uniti.
Questi confronti indicano che, per quanti problemi abbia l’Europa, non possiamo attribuire a essa e ai suoi limiti indubbi i nostri problemi. Dobbiamo riconoscere che il problema siamo noi.
E in ogni caso, il problema non è affatto quello di una crescita squilibrata, ma di una crescita che non c’è. La decrescita teorizzata da Latouche e da Beppe Grillo ce l’abbiamo già. E sappiamo cosa significhi, specie quando si accompagni con le altre due grandi anomalie dell’Italia, ossia i divari territoriali e l’economia sommersa: giovani disoccupati, lavori precari e sotto pagati, scuole che cadono a pezzi, dissesto idrogeologico e sei milioni di persone che vivono in condizioni di povertà.
Anche se si guarda alle diseguaglianze, è difficile dire che esse siano il risultato di una crescita squilibrata, sia perché la crescita non c’è stata sia perché, a differenza di ciò che è accaduto in molti altri paesi, da noi le diseguaglianze non sono aumentate. L’indice di Gini è su livelli europei nel Centro Nord e su livelli più alti al Sud, ma in entrambe le aree è stabile da decenni. La quota del lavoro sul valore aggiunto cresce ininterrottamente da un ventennio ed è vicina ai livelli massimi della prima metà degli anni settanta. Ha ragione chi lamenta che i salari sono bassi, ma ha anche ragione chi dice che sono bassi i profitti (quantomeno quelli leciti). La ovvia verità è che se scende il reddito alla fine ne soffrono sia gli uni che gli altri. Di qui l’apparente paradosso di bassi salari e, insieme, di una colossale perdita di competitività rispetto alla Germania, misurabile in ben 25 punti sul costo del lavoro per unità di prodotto dal 1999.
È possibile che ci voglia tempo, forse qualche anno, affinché le riforme attuate in questi anni manifestino i loro effetti positivi sulla crescita. È anche possibile che, nella valutazione degli imprenditori e degli investitori in generale, questi effetti siano per ora sopravanzati dalla paura di derive populiste. Ciò non toglie che un programma di governo non può che rimettere al centro il tema dal quale eravamo partiti tre anni fa: le riforme strutturali per la crescita. Siamo riusciti a cambiare il segno del Pil e soprattutto dell’occupazione, ma a essere generosi siamo a metà del cammino. Moltissimo resta ancora da fare.
Si può obiettare che in questo modo non si cambierebbe molto rispetto ad una strategia che alla fine ha portato alla sconfitta del 4 dicembre o che può aver contribuito ad essa. Può darsi. Ed è certo che alcuni errori vadano corretti e che molte cose possano essere cambiate per quello che riguarda il modo in cui comunichiamo le nostre politiche. Ma, se guardiamo alla sostanza delle politiche, dobbiamo rivendicare le molte cose buone che abbiamo fatto e indicare la volontà di continuare con più decisione lungo la strada intrapresa.
Giampaolo Galli, 8 marzo 2017