Nella dichiarazione franco-tedesca di Meseberg riaffiora un’idea molto pericolosa per l’Italia, Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2018

Nella ‘dichiarazione di Meseberg’, il documento predisposto dalla Francia e dalla Germania in preparazione del vertice europeo del 28 e 29 giugno, riaffiorano alcune idee che, se recepite, sarebbero molto pericolose per l’Italia. Si tratta in sostanza dell’ipotesi della ristrutturazione ordinata di un debitore sovrano all’interno dell’area dell’euro, un tema su cui ci eravamo già soffermati in passato su queste colonne (“La proposta sul default ordinato pericolosa per l’Italia”, 6 ottobre 2017). Nelle intenzioni degli estensori, la ristrutturazione è la via per indurre i paesi ad una maggiore disciplina di bilancio e anche per limitare i rischi per i contribuenti europei derivanti da un default del debito pubblico italiano. Il Meccanismo di Stabilità Europeo (ESM) verrebbe potenziato, anche cambiandone il nome e facendolo diventare un vero e proprio Fondo Monetario Europeo. Il Fondo dovrebbe “avere la capacità di valutare la situazione economica in un paese membro, contribuendo alla prevenzione delle crisi”. Sino a che il malato non è grave sarebbe affidato alle cure amorevoli della Commissione, ma se la situazione si dovesse deteriorare entrerebbe in terapia intensiva.

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Siamo ancora alle promesse senza coperture, Inpiù, 19 giugno 2018

A quanto pare, il governo non presenterà al Parlamento la parte programmatica del DEF che era stata lasciata in bianco dal precedente governo e rinvierà le scelte impegnative all’autunno o forse ad un decreto estivo. Per ora ci si limiterà ad un esercizio diplomatico per scrivere una risoluzione parlamentare che lasci aperte le opzioni di fondo. Questa sembra una strada obbligata perché la distanza fra la realtà e i programmi, o meglio le promesse elettorali, dei partiti è ancora abissale.

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Il governo deve convincere i mercati che farà “whatever it takes” per rimanere nell’euro, con Lorenzo Codogno, Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2018

A parte il Ministro Tria, sembra che il governo non si preoccupi particolarmente dello spread di rendimento tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi, il quale oscilla ormai da molti giorni attorno a 230-270 punti base. Il presidente del Consiglio ha opportunamente affermato che “l’uscita dall’euro non è mai stata in discussione, non è entrata nel contratto di governo e non è un obiettivo che ci proponiamo in questa legislatura”. Ha poi però anche aggiunto: “non facciamo dello spread un vessillo”, quasi a voler minimizzare la serietà della questione rispetto a quelle che sono le esigenze dei cittadini che vanno prioritariamente soddisfatte. Ci consenta il Presidente di osservare che lo spread certo non è un vessillo per nessuno, ma è una faccenda tremendamente seria. Lo è non per una qualche complicata ragione finanziaria; lo è per l’economia reale. Innanzitutto, uno spread elevato è un inaccettabile spreco di risorse, perché è un costo per lo Stato e comporta maggiori tasse o minori possibilità di spesa in futuro. Cento punti base di maggiori interessi si traducono in un costo aggiuntivo per lo Stato di circa 2 miliardi dopo un anno, più di 4 miliardi dopo 2 anni e più di 22 miliardi a regime, dopo circa sette anni. In secondo luogo, uno spread elevato sui titoli di stato si traduce in un più alto costo del credito per le famiglie e le imprese, e soprattutto in una sua minore disponibilità. Infatti, l’aumento dello spread spinge verso l’alto il costo della raccolta sui mercati finanziari per le banche italiane, e verso il basso la valutazione dei 341 miliardi di titoli di Stato nei loro bilanci, erodendo il loro patrimonio e riducendo la loro capacità di erogare credito. Questi effetti sono molto rilevanti, come dimostra l’esperienza del 2011. L’economia italiana entrò in recessione già nella seconda metà dell’anno, quando le principali misure restrittive introdotte dalle tre manovre che si susseguirono fra luglio e dicembre di quell’anno non erano ancora entrate in vigore. Anche se il Pil non si fosse ulteriormente contratto nel corso del 2012, la flessione già acquisita nella seconda parte del 2011, prevalentemente per via dello spread, avrebbe causato una recessione pari a circa l’1 per cento.  Gli ulteriori cali del Pil registratisi nel corso del 2012 aggiunsero un altro punto e mezzo alla recessione dell’anno e furono in buona parte dovuti al freno nell’offerta di credito bancario. I prestiti bancari alle imprese registrarono infatti una brusca frenata attorno alla metà del 2011 e addirittura diminuirono dal mese di dicembre e in tutto il 2012. Parallelamente i tassi bancari per famiglie ed imprese schizzarono verso l’alto. Le imprese furono quindi costrette a rientrare dai fidi in tempi brevissimi.

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I rischi per l’economia dal contratto giallo verde. La mia relazione al convegno di REL e FOR, 12 giugno 2018.

Probabilmente, le promesse fantasmagoriche del contatto giallo-verde vanno considerate come un’ulteriore tappa della infinita campagna elettorale italiana e non vedranno mai la luce. La cose che ci stanno scritte rivelano però molto sulle pulsioni che governano la nuova maggioranza. Pulsioni che non fanno i conti con la realtà e sono un pericolo per l’economia italiana. Ne abbiamo discusso il 12 giugno in un convegno organizzato dall’associazione REL (Riformismo e Libertà) e da FOR (Fondazione Ottimisti e Razionali).

Qui le slides della mia presentazione: Galli contratto giallo verde

Qualche consiglio al Prof. Tria. Rassicurare i mercati sull’euro e trovare (collegialmente) le coperture, Inpiù, 5 giugno 2018

Lavoro davvero improbo, al limite dell’impossibile, quello che spetta al nuovo inquilino del MEF, il Prof. Giovanni Tria. La prima cosa che deve fare è di convincere i mercati che il governo non ha intenzione di uscire dall’euro e anzi farà qualunque cosa per evitare questo esito. Oggi questa intenzione non è chiara e i mercati, pur rinfrancati dall’azione del Presidente Mattarella, rimangono con il sospetto che prima o poi, magari a seguito di un contrasto con Bruxelles o di un’impennata dello spread, il governo scelga la via dell’exit. Se non si riesce a sradicare questo timore, lo spread rimarrà elevato e soprattutto volatile, il che aggraverebbe ulteriormente l’onere del debito e esporrebbe l’Italia a rischi davvero enormi. La dichiarazione che Tria ha già fatto venerdì scorso è utile, ma non basta perché i mercati sanno dei vari piani segreti o semi segreti che sono stati elaborati in questi anni e possono sempre temere che la smentita faccia parte di una sceneggiata: occorrono dunque parole molto forti e fatti conseguenti per escludere categoricamente l’ipotesi dell’exit, insomma una sorta di whatever it takes del governo italiano. L’altra cosa cruciale che Tria dovrebbe fare è di pretendere che le coperture vengano decise collegialmente dal governo e contestualmente alle misure espansive. Stando alle dichiarazioni, le coperture alle quali sembra pensino gli azionisti del governo sono la spending review e, con meno convinzione e molte contraddizioni, la lotta all’evasione. Fino ad oggi però, essi hanno parlato delle coperture come di bacchette magiche che possono essere affidate a un tecnico e risolvono qualunque problema, per decine o centinaia di miliardi, senza provocare contraccolpi o reazioni negative. Non è così: le coperture sono importanti e politicamente sensibili tanto quanto le misure che servono a finanziare. Ebbene, Tria si circondi delle persone più autorevoli che ci sono su queste questioni, ad esempio riconfermando il Ragioniere Generale dello Stato, e chieda loro di fare delle proposte con delle quantificazioni precise di quanto si può ragionevolmente ricavare. Ne discuta in Consiglio dei Ministri, in modo che il governo si assuma la responsabilità collettiva delle coperture. Eviti in ogni caso di trovarsi nella condizione di doversi inventare le coperture da solo, la notte prima della presentazione di un provvedimento. Se accadesse questo, avrebbe perso in partenza. Noi, da italiani, facciamo il tifo per lui e speriamo di non doverci ricredere.

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