Economia in Quark – Togliere i brevetti dei vaccini alle case farmaceutiche eviterebbe disparità economiche tra Paesi?

Il debito pubblico aumenta in tutti i Paesi, ma in modo molto diverso. E la spaccatura tra nord e sud Europa rischia di aumentare le tensioni. Una soluzione è la crescita. L’altra, che alcuni propongono, è togliere i brevetti sui vaccini alle case farmaceutiche. Ne discutono gli economisti Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli e Alessandro De Nicola in una nuova puntata di Economia in quark.

Qui il link al sito de “La Stampa”

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L’Italia delle piccole imprese al palo

La cultura corrente consente di dire bene delle piccole imprese; sono le uniche che devono essere difese e tutelate. La verità è che solo con le grandi imprese si possono affrontare l grandi sfide della ricerca, della trasformazione ambientale e della competizione internazionale.

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Robert Mundell, architetto dell’euro

Fra gli anni settanta e i primi anni novanta, quando in Europa cominciava a farsi strada l’idea della moneta unica, Mundell fu consulente ascoltato di governi e banche centrali. E’ oggi considerato, a ragione, il padre intellettuale dell’euro e, comunque, uno dei suoi principali architetti. Abbiamo ottime ragioni per rileggerlo, oltre che per rimpiangerlo.

Un ricordo di Giampaolo Galli, Inpiù, 6 aprile 2021

Pochi economisti hanno avuto tanta influenza su uno spettro tanto ampio di materie. Sostanzialmente quasi tutto ciò che oggi sappiamo in materia di economia monetaria internazionale è dovuto a Robert Mundell, scomparso ieri. Come scrisse il suo allievo più brillante, Rudi Dornbusch, dopo Mundell è difficile trarre ispirazione dai pur grandissimi economisti che lo hanno preceduto. Sono relegati agli archivi della storia del pensiero economico giganti come Charles Kindelberger, James Meade, Robert Triffin, Gottfried Haberler. Mundell era un amante dell’Italia e aveva una casa vicino a Siena, dove per tanti anni intrattenne economisti di tutto il mondo organizzando le cosiddette Conferenze di Santa Colomba. Era un formidabile ragionatore e anche un affabulatore ineguagliabile: dominava qualunque platea, con la sua voce pacata, anche dolce, spesso ironica.

Vinse il premio Nobel nel 1999 per il suo modello di economia aperta, quello che oggi è lo standard in tutti i libri di testo di economia internazionale, e per il suo scritto sulle aree monetarie ottimali. Il modello chiarisce perché la politica monetaria non può essere indipendente in regime di cambi fissi e perché la politica fiscale è sostanzialmente impotente in regime di cambi flessibili. Lo scritto sulle aree ottimali convinse molti che l’Europa poteva avere un’unica moneta. Mundell si spese molto per questo obiettivo, polemizzando con tanti suoi colleghi nordamericani, a cominciare da Milton Friedman, che invece avevano molti dubbi. Fra gli anni settanta e i primi anni novanta, quando in Europa cominciava a farsi strada l’idea della moneta unica, Mundell fu consulente ascoltato di governi e banche centrali. E’ oggi considerato, a ragione, il padre intellettuale dell’euro e, comunque, uno dei suoi principali architetti. Abbiamo ottime ragioni per rileggerlo, oltre che per rimpiangerlo.

La discontinuità di Draghi, di Giampaolo Galli, Il Riformista, 23 marzo 2021

E’ difficile dire che con Draghi non è cambiato nulla. Lo si è visto alla conferenza stampa di venerdì: non eravamo più abituati a risposte precise, rapide, secche; ossia a un linguaggio di chi sa di cosa parla e sa ben calibrare le parole.

Tre cose in particolare mi hanno colpito. La prima è che forse solo un personaggio come Mario Draghi poteva dire che non è questo il momento di preoccuparsi del debito pubblico. Tutti sanno che Draghi è perfettamente consapevole delle conseguenze nefaste di un alto debito pubblico; proprio per questo Draghi può dire che al debito ci si penserà dopo, quando sarà finita la guerra contro l’epidemia. Forse le stesse parole dette da altri avrebbero sollevato  dubbi e timori sui mercati.

Lo stesso vale per le questioni del rapporto stato-mercato e dell’Europa. Tutti sanno quanto ha fatto Draghi per le privatizzazioni e poi per l’Europa. Per questo si può permettere di dire che non è questo il momento di dire se è meglio lo stato o il mercato; e che quando l’Europa non funziona, alla salute ci devono pensare i singoli Stati. A nessuno viene il dubbio che Draghi voglia statalizzare l’economia o tornare ai fasti anti-europei del governo giallo-verde.

Infine, l’unico momento della conferenza stampa in cui Draghi ha alzato i sopraccigli è stato quando un giornalista ha suggerito che il blocco di AstraZeneca fosse stato fatto per andare incontro agli interessi della Germania. L’uomo che per tanti anni alla BCE ha contrastato con successo le posizioni dell’establishment tedesco ha una ovvia credibilità quando nega che questo sia stato il caso e fulmina con lo sguardo l’incauto giornalista che aveva fatto la domanda.

Si aggiunga che nessun Presidente del Consiglio aveva mai usato la parola ‘condono’. Quasi tutti i governi l’hanno fatto, anche se alcuni più di altri e in dosi pericolose per la salute pubblica, ma tutti hanno sempre negato che si trattasse di un condono. Draghi si è solo difeso dicendo che 5.000 euro sono una cifra piccola, perché al netto di interessi di mora e sanzioni, corrispondono a qualcosa come 2.500 euro. Avrebbe potuto aggiungere vari altri argomenti. Ad esempio, che si tratta di cartelle datate e in gran parte inesigibili e che c’è un tetto di 30.000 euro di reddito per i beneficiari. Non lo ha fatto. E forse non lo ha fatto a ragion veduta; magari per evitare che Salvini cantasse vittoria troppo facilmente. Infatti, anche a destra questa parola non la si usa a cuor leggero; Salvini parla di pace fiscale, non certo di condono.

Poi ci sono i contenuti. Fra questi l’annuncio di una nuova richiesta di scostamento di bilancio nella consapevolezza, espressa molto chiaramente, che anche questo intervento, per quanto ingente, non sarà sufficiente. Può darsi che Draghi non sia un politico e non sia empatico, ma presentando il decreto con una certa umiltà e dicendo che era il massimo che si poteva fare nella circostanza ha parlato a milioni di persone angosciate per il fatto di non aver visto, se non forse  dopo grandi ritardi, quei soldi che erano stati annunciati con dosi forse un po’ eccessive di ostentazione.

Infine, due novità tecniche importanti. Sono stati abbandonati gli ormai famigerati Codici Ateco, che avevano la pretesa di incapsulare un’ economia complessa i pochi codici statistici. Questi codici non tenevano conto delle interdipendenze fra settori dell’economia e finivano per lasciar fuori molte imprese dell’indotto dei settori che erano stati messi in lockdown. Peraltro, a quanto mi consta, l’Italia era l’unico paese europeo che usava codici di settore. Saggiamente, si è deciso di dare i contributi a fondo perduto alle imprese che hanno avuto una significativa caduta di fatturato. E anche qui c’è un’altra innovazione importante: i vari decreti successivi al decreto Rilancio del 19 maggio hanno continuato a usare come criterio quello del primo decreto, ossia la caduta del fatturato ad aprile 2020 rispetto ad aprile 2019. Può sembrare un punto molto particolare o tecnico, ma un criterio del genere tagliava fuori tantissime imprese che avevano avuto anche forti cadute di fatturato, ma non ad aprile. Il motivo per cui si era continuato a usare quel criterio è che i soggetti che avevano beneficiato del primo ristoro erano già noti e quindi questo evitava che si ripetessero i ritardi che tanto hanno pesato sull’efficacia dell’azione del precedente governo e anche sulla sua popolarità. Questo governo fa una scelta diversa e molto ragionevole – caduta del fatturato media 2020 su 2019- scommettendo sull’efficienza dell’amministrazione tributaria. In questi giorni le categorie protestano perché il contributo è modesto, ma si tenga conto che con i criteri precedenti molti non avevano avuto nulla, tant’è da solo questo contributo costa oltre 11 miliardi. Nel complesso, queste innovazioni segnano un’indubbia discontinuità e  vanno incontro alle richieste di un larghissima platea di piccole imprese. Ma sono state dette un po’ sottovoce, forse per non irritare i partiti che erano anche nella precedente maggioranza, ma forse anche per un’accorta avversione verso forme di ostentazione che stonano con la serietà della situazione che il Paese sta affrontando.    

Troppo piccole le nostre imprese “calabrone”, Inpiù, 23 marzo 2021

Se da anni cresciamo poco dipende anche dalla struttura del sistema produttivo.

Nei giorni scorsi la Banca d’Italia, in un’audizione di Alessio De Vincenzo, ci ha dato una pessima notizia. Negli ultimi anni le imprese italiane, quelle che sono sopravvissute alle crisi, hanno rafforzato la loro struttura patrimoniale, ma son rimaste piccole, il che, ci ricorda Banca d’Italia, riduce la possibilità di “migliorare la qualità delle prassi gestionali, di beneficiare appieno dei vantaggi connessi con l’adozione delle nuove tecnologie, di affrontare con efficacia le sfide della transizione ecologica, di investire in capitale umano”.  Da un quarto di secolo, – è bene sempre ricordarlo- l’Italia è il paese con la più bassa crescita al mondo (se si eccettuano paesi squassati da guerre civile o catastrofi naturali); il nostro pil procapite, prima del Covid, era uguale a quello di venti anni fa. Le ragioni di questa stagnazione sono molte e molto complesse, ma alla fine tutte le spiegazioni collassano sulla struttura delle imprese. La crescita non la porta la cicogna, diceva un antico slogan di Confindustria; la crescita la fanno le imprese. Vero.

Ma è vero anche il contrario. Se non c’è crescita, vuol dire che le imprese non funzionano. Tante piccole imprese italiane ci sembrano dei miracoli e forse lo sono. Inventano prodotti per nicchie di mercato piccolissime; combattono tutti i giorni una guerra per la sopravvivenza contro ostacoli burocratici di ogni tipo. Ma così non si può andare avanti a lungo. L’impresa padronale o famigliare è il calabrone che ha volato per tanto tempo, ma ora non ce la più. Queste imprese sono del tutto inadatte a vincere la concorrenza su mercati aperti nell’era della digitalizzazione e della trasformazione ecologica. Queste imprese continuano a cercare periti industriali, quando invece servirebbero fior di laureati per fare ricerca e anche per fare la gestione di realtà che non possono non essere molto complesse. Con il suo piglio aristocratico da ex direttore di McKinsey, Roger Abravanel nel suo ultimo libro dice che le nostre imprese sono semplicemente brutte. Forse dovremmo cominciare a usare il linguaggio giusto.

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