“Caro Fassina, il governo sa fare bene i conti – Contenere il disavanzo per ridurre il rapporto debito-Pil” Giampaolo Galli su Europa 15/04/2014

E’ difficile accusare il governo di eccesso di austerità nel momento in cui, con il Def, si impegna a realizzare un radicale programma di riforme per la crescita, rinvia il pareggio di bilancio strutturale e chiede al Parlamento di deliberare una deroga al sentiero di rientro già concordato con l’Unione Europea.

Malgrado la prudenza del governo sul fronte del risanamento e la evidente attenzione al tema della crescita, i critici del’austerity si fanno sentire più agguerriti che mai. L’argomento è che la disciplina di bilancio avrebbe l’effetto non solo di peggiorare l’andamento del ciclo economico, ma addirittura di aggravare anziché alleviare il problema del debito. Questa tesi viene ripetuta come un mantra ad ogni occasione utile e naturalmente ha molto ascolto in Italia come in tutti i Paesi che sono stati duramente colpiti dalla crisi in questi anni. I politici che si dannano per conciliare al meglio crescita e risanamento non solo rischiano di perdere il consenso dell’elettorato, che ovviamente sarebbe ben più contento di avere pranzi gratis, ma addirittura fanno la figura dei babbei. Non avrebbero infatti capito che si può fare il miracolo di moltiplicare i pani e i pesci, ossia abbandonare l’odiata austerity e ottenere così non solo più Pil e più voti, ma addirittura un risanamento finanziario più efficace. E viceversa: come ha detto, ad esempio, con la consueta efficacia, Stefano Fassina “con questo Def il risultato sarà meno Pil, meno occupazione e più debito pubblico”. Viene da chiedersi come mai tanti politici in tanti paesi diversi perseguano politiche tanto autolesioniste. La questione non riguarda solo il governo Renzi o altri governi di paesi dell’eurozona, presentati come scioccamente proni ai voleri della Germania. Riguarda anche i paesi nordici non membri dell’euro, gli Stati Uniti, dove Paul Krugman arriva addirittura ad accusare Obama di fare una politica di austerità dettata – chissà con quali fini – dalle lobby finanziarie, e soprattutto il Regno Unito. L’assalto all’austerità, vera o presunta, unisce in un unico coro stonato ed assordante tutte le opposizioni di destra e di sinistra, senza alcuna sostanziale differenza di toni e di profondità analitica. Assieme alla questione dell’euro, è diventato uno dei temi chiave della campagna elettorale europea: da un lato i partiti che hanno responsabilità di governo i quali, pur con accenti diversi, non possono non preoccuparsi del bilancio e, dall’altro, tutta l’allegra compagnia degli oppositori. Il fatto è che la teoria dell’espansione risanatrice non regge. Un aumento (permanente) del disavanzo di bilancio provoca, prima o poi, un aumento e non una riduzione del rapporto debito-Pil. Immaginiamo, ad esempio, che il governo decida di aumentare il deficit di 20 miliardi, attraverso misure permanenti e non una tantum, e supponiamo che questa politica determini, attraverso un moltiplicatore da sogno (keynesiano), un aumento di ben 40 miliardi del Pil. Se il Pil e il debito iniziali del Paese sono entrambi pari a 2.000 miliardi, il rapporto debito su Pil scende da 100% a 99% (ossia 2020 diviso 2040). Tutto bene dunque. Ma cosa succede l’anno dopo? Il Pil rimane a +40 e il deficit rimane a +20. Il problema è che il deficit crea nuovo debito. Il debito dunque dopo due anni non è più a 2020, ma a 2040 (più gli interessi). E dopo tre anni è a 2060 e così via. Il che significa che il rapporto debito Pil, dopo una iniziale flessione, ricomincia a salire. Non solo: l’aumento é senza limiti a meno che il governo non corra ai ripari e predisponga un piano di rientro, con gli interessi naturalmente. Rispetto a questo esempio numerico si possono introdurre decine di varianti, relative in particolare agli effetti dinamici e alle relazioni fra Pil effettivo e potenziale, ma il risultato di fondo non cambia: un maggior deficit, prima o poi,  aumenta il debito e costringe a fare manovre di rientro. Questa conclusione è dunque molto robusta, anche se in astratto non è impossibile costruire modelli teorici in cui essa viene invalidata: tali modelli possono essere interessanti per chi è alla ricerca di effetti speciali, ma sono sostanzialmente privi di riscontri empirici.

Alla luce della gravità della crisi economica, è dunque perfettamente lecito discutere sull’intensità e rapidità del risanamento, ma non lo è affermare che il risanamento venga da sé, come conseguenza naturale di politiche anticicliche. I politici che si fanno carico del risanamento sanno bene cosa stanno facendo e perché. Non sono né babbei né asserviti a oscuri disegni della finanza o di potenze straniere. Semplicemente, laicamente sanno far di conto. E, nel caso dell’Italia, è facilissimo fare il conto che ha fatto Padoan: un graduale contenimento del disavanzo in direzione del pareggio è la condizione minima perché, in presenza di efficaci riforme per la crescita, nei prossimi anni si cominci a vedere una sia pur lieve riduzione del rapporto fra debito e Pil.

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“Dopo 2 giorni alla Camera diventi antipolitico” Giampaolo Galli a l’Abitacolo di Franco Bechis – LiberoQuotidiano 11/04/2014

“Basta passare due giorni in Parlamento e un po’ ti viene voglia di antipolitica. Fa impressione la quantità di ore che passiamo a perdere del tempo con i soldi del contribuente”. Lo dice Giampaolo Galli, ex direttore generale di Confindustria e deputato del Pd, partecipando alla web trasmissione L’Abitacolo.

“Quando ai deputati arriva qualcosa dal Senato”- racconta, “dicono: questi senatori, che stupidaggine hanno fatto? Poi ai senatori arriva una cosa dalla Camera e si dicono: che hanno fatto questi deputati? Si danno un po’ del deficiente a vicenda… e alla fine uno potrebbe prenderli sul serio tutti e due…”. Galli nella trasmissione affronta anche il tema dei tagli alla spesa pubblica proposti da Matteo Renzi: “Mi avessero chiesto alcuni mesi fa se si possono fare 10 miliardi di tagli su base annua nel giro di poco tempo, avrei detto di no. Avrei detto che se si vogliono fare, c’è bisogno di più tempo. Il presidente del consiglio si è tagliato i ponti alle spalle. Ha detto parole di fuoco su se stesso, qualora i tagli non venissero fatti e e gli € 80 al mese non entrassero nelle buste paga dei lavoratori italiani a partire dal mese di maggio. Per certi versi questo e un metodo giusto. Perché se tu parti dai tagli e non sai qual è l’obiettivo, quei tagli ti appariranno sempre troppo costosi”. Secondo l’ex direttore generale di Confindustria “sono tutti d’accordo più che altro sul fatto che erano insufficienti le misure che aveva preso il governo precedente e guidato da Enrico letta. Tutti: sindacati, imprese, opinione pubblica. Ed era molto strano perché questo significa che sono tutti d’accordo a voler ridurre gli spazi dello Stato e tagliare le tasse ai cittadini. Era un’opinione di Confindustria fino ha qualche tempo fa, certo non dei sindacati. Oggi domina una strana compagnia, una linea Alesina-Giavazzi-Camusso. Una linea economica tipica dei conservatori, non dei progressisti”.

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“La minoranza si crede maggioranza” – intervista di Goffredo Pistelli a Giampaolo Galli – ItaliaOggi 11/04/2014

«Un grande sperpero di capitale umano». Giampaolo Galli, milanese, classe 1951, bocconiano, specializzato al Mit di Boston, a lungo a capo-economista e poi direttore generale di Confindustria, dopo esperienze al Fmi e in Bankitalia, da un anno e due mesi è deputato democrat.

E definisce così la vita parlamentare, in cui s’è immerso diligentemente.

Domanda. Onorevole, mi par di capire che un’azienda non organizzerebbe le sue assemblee degli azionisti così…

Risposta. Assolutamente no. Per il suo funzionamento, il Parlamento è straordinariamente inefficiente. Si passano i giorni a presentare emendamenti e, grazie al bicameralismo, tutto è dilatato: se va bene un provvedimento va due volte in commissione e due volte in aula. E poi trovi sempre qualcuno, nelle opposizioni, che obietta: «Non ne abbiamo discusso abbastanza». Che ci siano 630 persone che stanno giornate e giornate a votare emendamenti, aspettando che il «comitato dei nove» (organismo che alla Camera fa la prima analisi degli emendamenti, ndr) prenda delle decisioni, mi pare davvero incredibile. Insomma ci sono persone che hanno competenze e capacità e sono state elette per quello: mi pare uno spreco di risorse umane, appunto.

D. Al bicameralismo si metterà fine, come dice il suo segretario di partito nonché premier, Matteo Renzi…

R. Me lo auguro davvero. Ho invece forti perplessità sulle proposte di quanti insistono nel voler fare i senatori comunque elettivi. Se così fosse, rivendicherebbero le loro prerogative e saremmo punto e a capo. No, ho piena fiducia nel progetto del governo. E anche l’argomento dello sbilanciamento dei poteri, davvero non lo capisco, a meno che, nella mente di chi obietta, sia buona cosa avere due diverse maggioranza alla Camera e al Senato, che così si controllano a vicenda, come pericolasi sovversivi, non prendendo decisioni. Ecco, se c’è una cosa pericolosa per la democrazia è proprio questa. Ci andrei molto cauto.

D. Eppure al Senato ben 22 membri del suo partito hanno presentato un progetto alternativo a quello di Renzi.

R. La mia impressione è che nella rapida transizione di questo periodo ci sia una gara a chi fa il leader dell’opposizione interna.

D. Dunque sono critiche speciose…

R. Dico che è facile, leggendo un documento, capire se c’è contributo costruttivo o se si attacca per attaccare. Certo se i contributi sono mille, allora è chiaro che si vuol mettere il governo e le riforme in cattiva luce.

D. Ma poi, il congresso del Pd non è finito l’8 dicembre?

R. Infatti, il momento congressuale c’è stato e tutto il partito ha riconosciuto legittimità alle primarie e al processo di elezione del segretario. Per questo mi ha colpito, giorni fa, sentir dire a Cesare Damiano che non voterà il decreto sul lavoro perché, come parlamentare, non ha vincolo di mandato.

D. Invoca addirittura la Costituzione…

R. La Costituzione lo prevede ovviamente, ma se ognuno di noi facesse valere questo principio in modo rigido saremmo in presenza di una difficile crisi istituzionale. Qui c’è un problema di responsabilità verso il governo e verso le istituzioni. Capirei invocare l’assenza di vincolo di mandato di fronte a scelte davvero gravi del Governo, ma non è certo questo il caso.

D. A volte, i suoi colleghi di partito parlano come esponenti dell’opposizione: penso al discorso di Stefano Fassina il giorno della fiducia all’esecutivo, impressionante…

R. Non vorrei personalizzare, anche perché il mio dissenso da Fassina non mi impedisce di riconoscere che è una persona competente e intellettualmente onesta. Certo a me hanno colpito i toni usati da diversi esponenti del Pd, ad esempio con un ottimo ministro come Giuliano Poletti.

D. Come li giudica?

R. Toni da sindacalisti anni ’70, da sharia ideologica, laddove quelli di Poletti sono moderati, di riflessione puntuale sui fatti, sui dati.

D. E come se la spiega questa regressione?

R. È che alcuni pensano a Renzi come a un intruso: non capiscono che sono loro, adesso, la minoranza. Eppure…

D. Eppure?

R. Eppure accade che alcuni deputati democrat vicini alla Cgil, maggioritari in commissione lavoro come da antica tradizione, si sentano autorizzati a bloccare il governo. Sarebbe sbagliato, sbagliatissimo. E spero che prevalga l’atteggiamento della responsabilità. Ma mi faccia dire una cosa_

D. Prego, onorevole_

R. Io non sono classificabile come renziano o altro. Ho una mia storia e sempre, negli incarichi che ho ricoperto, a cominciare da quello in Bankitalia, ho cercato di guardare all’interesse del Paese.

D. In questo caso, dov’è l’interesse dell’Italia?

R. In questo caso è chiaro: nel processo di riforme intraprese, che sono radicali, da lungo attese dal Paese, necessarie per far ripartire un’economia tramortita da 15 anni di perdita di competitività, di peso abnorme dello Stato, di burocrazia eccessiva, di fisco oppressivo.

D. Senta sul Jobs Act, oggi decreto Poletti?

R. Lo chiamerei decreto Madia-Poletti, perché recepisce molto del lavoro svolto dal ministro Marianna Madia, da responsabile lavoro nella precedente segreteria.

D. Giusto, diamo alla Madia quel che è della Madia, visto che è spesso bistrattata. E le facciamo gli auguri per la nuova nascita. Dicevo, qualcuno pensa che si sarebbe dovuta fare la delega assieme al decreto legge, al fine di realizzare il contratto unico a tutele crescenti.

R. Secondo me, chi lo dice, vuol buttare la palla fuori dal campo. Alza il tiro per non far niente. Nessun imprenditore utilizzerebbe un contratto a tutele crescenti quando può utilizzare un contratto a tempo determinato, a meno che il primo sia sostitutivo del secondo, nonché anche che ci sia una forte stretta su tutte le altre forme di flessibilità in entrata. Il che non è ipotizzabile e troverebbe l’opposizione durissima del mondo delle imprese e anche di buona parte del sindacato. Se poi per contratto unico si intende quello prospettato da Pietro Ichino, allora ricordo che esso comporta l’eliminazione totale dell’articolo 18, il che lo rende molto più controverso del decreto Poletti.

D. E il mondo delle imprese, che lei ben conosce, che ne pensa?

R. C’è un apprezzamento che non ho riscontrato ai tempi del Pacchetto Treu o della legge Biagi. Gli imprenditori dicono che è un provvedimento chiaro, che semplifica loro la vita, che consente di evitare i pasticci delle partite Iva false, dei falsi contratti a progetto. «Per la prima volta un governo che capisce i nostri problemi», dicono. Tenga conto che partite Iva farlocche e contratti a progetto non prevedono tutele per i lavoratori e neanche l’applicazione dei minimi contrattuali.

D. Gli imprenditori son contenti, lei dice, ma Confindustria spesso non è tenerissima con Renzi. A cominciare da Giorgio Squinzi, come l’episodio della cena con Angela Merkel ha mostrato. Che bisogno c’era di precisare che, a tavola, la Cancelliera era fredda col presidente del Consiglio?

R. Più che commentare retroscena personali, farei una considerazione politica: Confindustria non può che stare dalla parte del rinnovamento di chi vuol ridurre il ruolo e il peso dello Stato, tagliare il cuneo fiscale, tutte richieste tradizionali del mondo delle imprese.

D. Non può che stare dalla parte delle riforme, sostiene lei, allora diciamo che Emma Marcegaglia sarebbe stata più renziana di Squinzi. È d’accordo?

R. Mi permetta di non pronunciarmi (ride)

D. Senta però è un fatto che mai come questo periodo Confindustria e Cgil si trovano spesso d’accordo.

R. Guardi che la coincidenza di posizione fra le due organizzazioni s’è avuta nell’ultima fase del governo di Enrico Letta…

D. Accusato di scarso coraggio per la legge stabilità, sia da Squinzi che da Susanna Camusso…

R. Esatto, quando fu detto che i 14 euro in più, in busta paga, erano solo una mancia. Queste posizioni spiegano meglio di ogni retroscena sulle cospirazioni di palazzo il perché sia caduto quel governo. E visto che gli euro in busta oggi sono 80, mi aspetto che, chi ha attaccato Letta ieri, oggi sostenga Renzi, fino a prova del contrario.

D. Di recente mi è capitato di intervistare un paio di imprenditori di livello, Mario Carraro ed Enrico Bracalente, e trovarli entrambi assai critici con Confindustria. Non è che il sindacato degli industriali, così com’è, abbia fatto il suo tempo? Mi pare che ci sia un disamore crescente…

R. Non so se sia crescente: c’è, è vero, un certo numero di imprenditori critici. Però sono aumentate le adesioni delle imprese e vorrei ricordare che quella è un’associazione volontaria: uno può non iscriversi.

D. Ricorre spesso l’accusa di gigantismo…

R. Sì, si parla dei costi elevati soprattutto delle associazioni locali. Ma gli imprenditori di Vibo Valentia, faccio un esempio, possono decidere di tagliare i costi, ridurre la burocrazia e anche di chiudere la loro associazione provinciale. A livello territoriale vi è la massima autonomia.

D. Qualcuno dice che dopo l’uscita di Fiat, Confindustria non abbia più molto senso…

R. L’uscita della Fiat pesa ma, onestamente, non condivido questa opinione, che so aver credito. Penso che Confindustria sia anche le altre aziende, sia fatta di imprenditori che cambiano continuamente, che vogliono risolvere i problemi dell’oggi. Gente che lavora, che compete, che non ha esitazioni, se necessario, a cambiare le strutture dell’associazione.

D. Una domanda personale: il precedente, col mondo confindustriale, è quello di Massimo Calearo, chiamato da Walter Veltroni, e non andò benissimo. Sente il peso di questo confronto?

R. Ognuno ha la sua storia, io credo di averne una diversa.

D. Certo, lui era un imprenditore, lei un dirigente di Confindustria, ma ritiene davvero che il Pd possa essere l’approdo giusto anche per chi intraprende?

R. Il Pd è un partito di governo. Le componenti che lo hanno formato hanno avuto per molti anni responsabilità di governo. Credo che nel Pd sia più forte che in altre forze, il senso di responsabilità verso la nazione, del fare oggi le cose che servono. Se uno parte dalla realtà e non dell’ideologia, non può che riconoscerlo.

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“Il Def #cambiaverso” – Giudizi positivi e criticità nelle opinioni di Natale D’Amico, Giampaolo Galli, Paolo Onofri, Nicola Rossi, Giacomo Vaciago – Europa 10/04/2014

La strategia di fondo c’è. Le coperture pure. La scommessa anche. Il Documento di economia e finanza e il Piano nazionale delle riforme quest’anno cambiano verso e provano ad imprimere una diversa direzione alla politica economica italiana. Riservando così un assaggio in salsa comunitaria a quello che potrebbe essere il semestre di presidenza italiana dell’Ue.

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