E se l’Italia uscisse dall’euro? L’idea stuzzica molti e continua a raccogliere adepti, ma i due economisti Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli, a riguardo, hanno le idee molto chiare: se succedesse, sarebbe un suicidio. La tesi di Codogno, capo economista di Lc Macro Advisors Limited (nonché ex capo economista del ministero del Tesoro durante i governi Prodi, Berlusconi e Monti), e Galli, attualmente deputato del Pd, si basa su tre principali argomenti, elencati all’inizio del capitolo “Uscire dall’euro: una scelta suicida”, all’interno del libro “Europa sfida per l’Italia” (Luiss):
- Uscire dall’euro non è una soluzione, nel senso che l’Italia continuerebbe ad avere bisogno di riforme strutturali per la crescita, le stesse che servono per rimanere competitivi nell’euro.
- I problemi dell’Italia sono prevalentemente “fatti in casa” e non dipendono da fattori esterni, quali la moneta unica.
- Non esiste un modo per uscire dall’euro che non sia portatore di grave instabilità finanziaria, che complicherebbe ulteriormente i problemi dell’economia reale.
La copertina del libro “Europa sfida per l’Italia”
“In linea di principio – esordiscono i due economisti nel capitolo del libro – il vantaggio di uscire dall’euro consiste nella possibilità di svalutare il tasso di cambio al fine di guadagnare competitività. Questo vantaggio va posto a confronto con i costi di un’uscita e va valutato in maniera equilibrata”. Tra gli argomenti principali di chi fa dell’uscita dall’euro il proprio cavallo di battaglia c’è l’effetto della svalutazione della moneta sui salari reali. Sostengono Codogno e Galli: “Viene ripetuto ossessivamente che con l’euro l’Italia può ritrovare la competitività soltanto con la svalutazione interna, vale a dire una riduzione dei salari, mentre esiste una soluzione semplice che consiste nella svalutazione del tasso di cambio”. Ebbene, “questo è un argomento non valido anche se mediaticamente efficace”. Il fatto è che “un deprezzamento esterno ha la conseguenza desiderata di incrementare le esportazioni nette e il Pil solo nella misura in cui esercita un effetto di compressione del potere d’acquisto dei salari. Se i sindacati riescono a evitare perdite di potere d’acquisto dei lavoratori, la svalutazione non ha alcun effetto sulle variabili reali, come esportazioni e Pil, e modifica solamente il livello dei prezzi”.
Quindi, tirano le somme i due economisti, “per dire le cose correttamente si dovrebbe affermare che, prima dell’euro, i paesi potevano recuperare competitività attraverso la riduzione dei salari reali ottenuta tramite lo strumento ingannevole della svalutazione esterna, mentre con l’euro le imprese e il governo devono trattare con i lavoratori”. In ogni caso, per Codogno e Galli, a chi va predicando l’Italexit – così è stata ribattezzata un’uscita dell’Italia dall’Unione monetaria – “deve essere chiaro che non sta in realtà proponendo nulla di diverso da una compressione del potere d’acquisto del lavoro dipendente”.
Un altro “mito” che i due economisti sfatano è quello secondo cui “prima dell’euro, i singoli paesi godevano di stabilità e crescita”. Scrivono Codogno e Galli: “In primo luogo, l’Italia non godeva di stabilità: in tempi diversi, inflazione elevata e variabile, aumento del debito pubblico e ripetute svalutazioni erano sintomi di una società incapace di trovare un suo equilibrio, con conseguenti gravi problemi”. In seconda battuta, “la crescita è diminuita in tutto il mondo nel corso degli ultimi 15-20 anni, specie nei paesi che hanno sofferto di crescita bassa o nulla della produttività dei fattori”. I due economisti non hanno dubbi: “Per crescere di più non c’è alternativa rispetto all’aumento della produttività attraverso riforme e innovazione”.
Molti fautori dell’Italexit sostengono poi che “con la sovranità monetaria, un paese non può fare default”. Secondo i due economisti, in realtà, “c’è un fondo di verità in questa affermazione, dato che uno Stato sovrano può pagare il proprio debito pubblico stampando moneta”. Tuttavia, “si tratta solo di una piccola parte della storia, per due motivi. In primo luogo, anche uno Stato sovrano può fare default quando l’inflazione è così alta che la stampa di nuova moneta riduce il signoraggio, com’è avvenuto in molti paesi dopo eventi traumatici come guerre o cambi di regime. In secondo luogo, e in particolar modo, la monetizzazione del debito non è una scelta priva di costi economici e sociali. Tali costi sono rappresentati essenzialmente dalla tassa dell’inflazione, particolarmente ingiusta in quanto gli individui benestanti possono evitarla attraverso appropriati investimenti, mentre i cittadini meno abbienti finiscono per rimetterci”.
Il motto cavalcato più spesso da coloro che propugnano un’uscita dalla moneta unica è che in questo modo si alleggerirebbe l’Italia dal macigno del debito pubblico, che solo alla fine di gennaio valeva qualcosa come 2.250,4 miliardi. A detta dei due economisti, è semmai vero l’esatto contrario. “In caso di exit – scrivono – il paese si troverebbe di fronte a un dilemma difficilissimo. Se il debito non viene ridenominato, il suo onere aumenta nella misura dell’apprezzamento dell’euro rispetto alla nuova valuta nazionale. Se invece si decide di ridenominarlo, le agenzie di rating e, ciò che più conta, i mercati considererebbero l’Italia alla stregua di un paese in default e dal giorno dopo le aste dei titoli di Stato andrebbero deserte”.
E’ vero, poi, come dicono i “no euro” che con la svalutazione le nostre imprese tornerebbero a respirare?. “È vero – scrivono Codogno e Galli – che la svalutazione può migliorare la competitività delle imprese. Ma per il settore privato, i cui debiti sull’estero sono al 163 per cento del Pil, si porrebbe un problema analogo a quello del settore pubblico. Banche, imprese e anche famiglie potrebbero trovarsi con passività in euro e attivi o redditi in valuta domestica svalutata e ciò potrebbe dare luogo a fallimenti a catena e a tensioni sociali”. In questo contesto, “i salvataggi, in particolare delle banche, consentirebbero forse di preservare il valore facciale del risparmio, ma il suo valore reale verrebbe ulteriormente falcidiato dall’inflazione”.
Ma per Codogno e Galli i problemi più seri riguardano non tanto ciò che succederebbe dopo un’eventuale uscita dall’euro, ma il cammino di avvicinamento a quel traguardo. E ciò a causa della cosiddetta “trappola delle aspettative”. I due economisti la spiegano così: “I preparativi per la messa in circolazione di una nuova moneta e l’adeguamento dei sistemi di pagamento richiederebbero vari mesi. Molti non potrebbero essere avviati se non dopo un voto del Parlamento. Nel periodo precedente l’uscita, l’aspettativa – o la quasi certezza – di una svalutazione indurrebbe gli investitori, ma anche i comuni cittadini, a prelevare il denaro dalle banche e a portarlo all’estero. Già oggi la sola prospettiva che un partito anti euro possa vincere le elezioni in un qualunque paese dell’Eurozona sta generando tensioni sugli spread dei titoli sovrani. Se quella prospettiva si consolidasse – concludono Codogno e Galli – l’Eurozona entrerebbe in una crisi potenzialmente molto più grave di quella del 2011, quando nessuno, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, manifestava l’intenzione di uscire”. E “per quanti piani B possano essere inventati per chiudere le banche, vietare le esportazioni di capitale e mantenere la segretezza dei preparativi, non sembra siano disponibili delle soluzioni credibili per ovviare a questo drammatico problema. Le conseguenze, in termini di distruzione del risparmio dei cittadini e maggiore disoccupazione, sarebbero quindi enormi e i loro effetti nefasti durerebbero per molti anni a venire”.