La recente vicenda della Grecia ha fatto intuire quanto possano essere drammatiche le conseguenze di una possibile rottura dell’euro. Nei giorni in cui Tsipras doveva decidere se accettare l’accordo con l’eurogruppo, nessuno dei politici o degli economisti che avevano sostenuto la linea della Grexit è riuscito a definire un ragionevole piano B per l’uscita dall’euro. Non ci sono riusciti persone del calibro Schaeuble, Varoufakis, Stiglitz o Krugman, tutti sostenitori di questa linea.
Verrebbe da dire che, quantomeno sul piano intellettuale, il dossier noeuro è archiviato per sempre. Il bilancio costi benefici di una rottura dell’euro è negativo perché i costi di transizione sono imponderabili, ma certamente grandi, e perché la sovranità monetaria ha dei vantaggi, ma può anche avere dei costi sociali ed economici non secondari.
Nella narrazione populista dei noeuro invece il ritorno alla sovranità monetaria porterebbe praticamente solo benefici. La svalutazione della moneta sarebbe una sorta di pranzo gratis perché consentirebbe di migliorare la competitività delle imprese, e dunque il Pil e l’occupazione, senza determinare alcuna compressione delle retribuzioni reali dei lavoratori.
Questa affermazione è esplicita nella propaganda dei partiti anti euro, ma è implicita in un’altra affermazione, che ha una diffusione ben più ampia, secondo la quale “con l’euro, non potendosi più svalutare la moneta, per recuperare competitività si ricorre alla cosiddetta svalutazione interna, ossia in sostanza alla riduzione delle retribuzioni”. L’errore logico sotteso a quest’affermazione consiste nel non vedere che la svalutazione del cambio funziona, ossia produce un miglioramento della competitività delle imprese, soltanto se riesce a ridurre il potere d’acquisto delle retribuzioni. Se si vuol dunque descrivere correttamente il confronto fra il prima e il dopo, bisognerebbe semmai dire che “prima dell’euro si riduceva il potere d’acquisto delle retribuzioni attraverso il cambio, ora lo si fa direttamente”. Ciò naturalmente nei casi in cui un paese abbia perso competitività per via di divari accumulati in termini di prezzi relativi o di produttività.
Il punto cruciale è che la riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni non è un accidente della svalutazione al quale si può rimediare, come propongono spesso i noeuro, con opportuni accorgimenti, ad esempio con l’indicizzazione. E’ infatti ben noto che nel caso in cui i salari fossero indicizzati al 100 per cento al costo della vita, la svalutazione avrebbe il solo effetto di rimpiccolire l’unità di misura monetaria producendo inflazione e nessun effetto sulle variabili reali dell’economia. V’è di più. Per avere un dato effetto – poniamo – sul Pil attraverso la competitività di prezzo, la necessaria riduzione dei salari reali è in generale identica nel caso di una svalutazione esterna, ossia via il cambio, e in quello di una svalutazione interna.
La riduzione dei salari reali è dunque il cuore del meccanismo che consente di migliorare la competitività e, se sono verificate certe condizioni, l’export netto e il Pil. Essa si verifica attraverso l’aumento dei prezzi dei beni importati che si trasmette, attraverso le interdipendenze economiche, in tempi più o meno rapidi su tutti i prezzi interni che hanno un contenuto d’importazione.
La riduzione dei salari reali è peraltro parte di quel processo di perdita di reddito reale della nazione che si realizza attraverso il peggioramento delle ragioni di scambio, ossia la riduzione del rapporto fra il prezzo medio delle esportazioni e quello delle importazioni che è indotta dalla svalutazione.
Ragionando lungo queste linee, Milton Friedman, in un saggio del 1953, concludeva a favore dei cambi flessibili. Egli riteneva che la svalutazione esterna fosse preferibile a quella interna perché quest’ultima è molto difficile da realizzare in pratica, essendo i salari nominali tipicamente assai rigidi verso il basso. Friedman non aveva particolarmente a cuore il valore dei salari e non prese in considerazione una terza via che è quella di riforme che migliorino la produttività del sistema ed evitino la perdita di potere d’acquisto. La sua posizione era coerente.
Un po’ più difficile è capire la posizione di alcuni politici nostrani, che pure si ergono a difensori della parte più debole della popolazione. Nel sostenere che l’euro va superato, in sostanza essi scelgono la via di Milton Friedman, quella della svalutazione esterna il cui vero merito è di rendere quanto più facile possibile la riduzione del potere d’acquisto dei salari. Essi si allontanano così da una consolidata e sofferta riflessione post bellica di tutte le grandi socialdemocrazie europee e, soprattutto, finiscono per far apparire l’euro come una sorta di mostro che inibirebbe alternative ideali in realtà inesistenti. L’euro è una costruzione incompleta e imperfetta, ma non è un mostro.
Giampaolo Galli
22/08/2015, Il Sole 24Ore
Da rassegna: le due facce della moneta unica