Il primo gennaio di quest’anno, con l’entrata in vigore della Legge di Bilancio, è stata introdotta in Italia la “digital tax”. Già presente nelle Leggi di Bilancio dei due anni precedenti, ma slittata a causa di ragioni tecniche e nell’attesa di accordi a livello europeo, la digital tax italiana è la seconda nell’Area Euro dopo quella francese. Una tassazione equa sulle grandi imprese del web, quasi tutte americane (e in qualche caso cinesi), è uno degli obiettivi della cosiddetta “Agenda Digitale Europea” che fa parte del programma strategico “Europa 2020”. Anche se l’Agenda si prefigge di trovare una soluzione univoca entro fine 2020, alcuni paesi membri si sono opposti alla “web tax”. In assenza di un accordo internazionale, in sede OCSE o quantomeno in sede europea, una digital tax nazionale presenta numerose controindicazioni per quello che riguarda i possibili effetti sulla competitività delle imprese locali e sulla trasformazione digitale dell’economia. Nel caso dell’Italia, l’imposta presenta ulteriori controindicazioni. Primo, per come è formulata attualmente, verrà probabilmente scaricata sui consumatori. Secondo, colpisce anche alcune grandi imprese editoriali nazionali, il che è certamente contrario alla finalità della norma. Terzo, non è chiaro come possa essere reso compatibile con la normativa sulla privacy l’obbligo che viene imposto alle imprese del web di geolocalizzare gli utenti al fine di sapere se la transazione è avvenuta in Italia. Quarto, il gettito previsto (oltre 700 milioni nel 2020) è probabilmente sovrastimato. Infine, gli Stati Uniti considerano la digital tax come una discriminazione nei confronti delle loro imprese e hanno già annunciato che reagiranno imponendo dazi su prodotti francesi e italiani. Tutto questo non toglie che è necessario trovare una rapida soluzione a livello europeo, probabilmente basata su una formula per la ripartizione dei profitti tra paesi, per evitare che i profitti delle compagnie multinazionali del web finiscano per essere sottotassati. Una soluzione europea consentirebbe anche di negoziare con gli Stati Uniti da posizioni di maggior forza.
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La tassazione e le nuove sfide da affrontare a livello globale
In termini generali il problema è ben noto: le economie sono diventate sempre più aperte, il capitale si muove liberamente tra i vari paesi, le imprese, in particolare quelle che producono servizi digitali, possono con grande facilità fare scelte di localizzazione che riducono drasticamente il loro onere fiscale.[1] Queste trasformazioni hanno posto due ordini di problemi.
- Come definire i ricavi imponibili in modo da evitare sia la doppia tassazione sia la doppia non tassazione, nel caso in cui l’impresa sia soggetta al regime fiscale del paese di residenza e a quello in cui si concretizzano alcune fasi della catena del valore. Fino ad oggi, per dare una soluzione a questo problema, si è utilizzato il concetto di “stabile organizzazione”. L’impresa paga le imposte nel paese se ha una “stabile organizzazione”, cioè una presenza fisica di imprese controllate, filiali o simili. Tuttavia, con l’economia digitale, è diventato sempre più facile per le imprese operare in più paesi evitando la presenza fisica necessaria per decretare la stabilità dell’organizzazione aziendale.
- Come gestire le operazioni infragruppo, che, a causa della crescente globalizzazione, sono aumentate notevolmente? Questo è il problema cosiddetto del “transfer pricing”. Le imprese con sedi in più paesi possono far apparire, per gli scambi infragruppo, corrispettivi diversi da quelli che si concretizzerebbero tra imprese indipendenti, al fine di trasferire i profitti verso paesi a tassazione più bassa. Da qui, la necessità di affermare il principio delle “normali condizioni di mercato” (meglio conosciuto come “arm’s lenght principle”), secondo il quale le transazioni tra entità appartenenti allo stesso soggetto devono avvenire a prezzi di mercato. L’applicazione di questo principio è però particolarmente complesso per le imprese che operano nel digitale.
Per queste ragioni, si ritiene che i principi adottati prima della rivoluzione digitale siano diventati obsoleti; determinano un vantaggio competitivo delle grandi imprese multi-localizzate rispetto alle imprese locali e riducono in misura crescente il gettito per gli stati.[2] A queste ragioni di fondo, si aggiunge la circostanza che alcuni stati hanno adottato legislazioni fiscali particolarmente favorevoli volte ad attrarre le basi imponibili delle multinazionali a danno degli altri stati. Il risultato è che, per quanto riguarda l’Italia, un recente rapporto dell’Area Studi di Mediobanca informa che nel 2018 il fisco ha ricevuto dalle filiali italiane delle 25 principali aziende mondiali del web solo 64 milioni di euro a fronte di un fatturato di oltre 2,4 miliardi di euro.[3]
Una possibile soluzione comune?
Questi temi sono da tempo all’attenzione delle organizzazioni internazionali. In particolare, l’OCSE lavora da anni ad una soluzione globale, ma non riesce a concludere per via del contrasto fra l’Europa, che vorrebbe attrarre a sé una parte del gettito, e gli Stati Uniti, che sostengono che quasi tutto il valore aggiunto delle grandi imprese del web è prodotto nel territorio nazionale, e dunque, dovrebbe essere tassato dal governo statunitense.[4]
Nel 2018, la Commissione Europea ha proposto due soluzioni al problema.[5] La prima, la cosiddetta “comprehensive solution”, è una soluzione di lungo termine, che la Commissione ritiene essere la migliore risposta. Questa consiste essenzialmente nella sostituzione del criterio della stabile organizzazione con il principio della “presenza digitale”, anche detto della “stabile organizzazione virtuale” o “significativa presenza economica”. Si suggerisce di creare un sistema simile a quello attualmente vigente in alcuni stati federali come Stati Uniti e Canada, dove avviene una redistribuzione tra stati dei profitti delle imprese in base a una formula (“apportionment formula”) che tiene conto di più variabili, come le vendite, l’occupazione e il valore aggiunto. In questo modo, si può tenere conto del contributo che danno all’impresa anche gli stati di destinazione – contributo che, nel caso dell’economia digitale, è rappresentato, ad esempio, dai dati messi a disposizione dagli utenti – e si impedisce ai governi di mettere imposte su beni o servizi prodotti altrove, il che costituirebbe un ostacolo al libero commercio fra stati.
Numerosi studiosi osservano che un sistema di questo tipo, con un criterio di ripartizione dei profitti tra stati, avrebbe molti benefici. Sarebbe più adatto al modo in cui le imprese operano nell’economia globalizzata e aiuterebbe le aziende nell’interfacciarsi con i governi, grazie ad una maggiore semplicità e certezza. L’utilizzo della formula di ripartizione dei profitti sarebbe un vantaggio in termini di facilità di gestione anche per i vari stati: essi non dovrebbero più soffermarsi su “la natura ontologica di una particolare unità produttiva, congetturando se questa rispetti o meno i criteri della stabile organizzazione”.[6] Inoltre, questa soluzione non richiederebbe la completa armonizzazione delle basi imponibili e delle aliquote.
Come si è detto, proposte di questa natura per ora non trovano sufficiente consenso internazionale. Peraltro, l’Europa non è nella posizione di dare lezioni al resto del mondo dal momento che buona parte del problema riguarda le legislazioni di favore di paesi membri dell’UE (in particolare Irlanda, Lussemburgo e Olanda).[7]
Per questo, la Commissione Europea ha avanzato una seconda proposta, la DST (Digital Service Tax), ossia una tassa “ad interim” di facile attuazione che possa dare un segnale che occorre muovere nella direzione di un accordo internazionale. Si tratta di una tassa al 3 per cento sui ricavi generati da alcune attività digitali prodotte da imprese con un fatturato mondiale di almeno 750 milioni di euro e con ricavi in UE per almeno 50 milioni.
Questa è la soluzione che, con piccole variazioni, è stata adottata dalla Francia e, ora, dall’Italia. È apparentemente meno complessa e più diretta, ma presenta notevoli criticità. Innanzitutto, è un’imposta sul fatturato e come tale, al pari ad esempio di un’accisa, ha un’alta probabilità di essere traslata sull’acquirente.[8] Ciò è particolarmente vero nei casi in cui la domanda è poco elastica, il che è verosimilmente nel caso di aziende come Google, Facebook e Amazon che hanno grandi economie di scala o di rete – anche perché hanno i big data di milioni di consumatori e perché c’è un vantaggio per l’utente di stare sulla stessa piattaforma di molti altri utenti. In questi casi la tassa si trasla sugli utenti e diventa di fatto un ostacolo a quella trasformazione digitale dell’economia che è uno degli obiettivi di fondo delle politiche pubbliche dell’Unione Europea e dell’Italia.[9]
In secondo luogo, una tassa di questo tipo, specie se limitata alle grandi imprese con soglie di fatturato molto alte, si espone all’accusa degli americani di essere un dazio ai danni di specifiche imprese Usa (e qualcuna cinese). In effetti, dal punto di vista della sostanza economica e al di là della forma giuridica, la DST è equiparabile a un dazio sull’importazione di certi servizi digitali. Come noto, gli Stati Uniti hanno già annunciato misure di ritorsione ai danni dei prodotti francesi e, da qualche giorno, anche di quelli italiani.
La web tax italiana
L’ISD (Imposta sui Servizi Digitali) che è stata introdotta quest’anno in Italia (si veda il testo in Appendice) è molto simile alla DST proposta dalla Commissione Europea e già attuata dalla Francia. Si tratta di una tassa sui ricavi delle società che forniscono certi servizi digitali. Le soglie minime per definire il perimetro dei soggetti colpiti sono le stesse della proposta della Commissione: un fatturato globale di gruppo di 750 milioni di euro, di cui 5,5 derivanti da servizi digitali erogati sul territorio nazionale.
La definizione della base imponibile è straordinariamente contorta ed è accompagnata da una lunga lista di esclusioni, il che rende evidente il tentativo di colpire essenzialmente i cosiddetti GAFA (Google, Apple, Facebook e Amazon), tentativo che – come vedremo – non sembra essere compiutamente riuscito.
Nella sostanza però la questione è abbastanza semplice: l’imposta si propone di colpire – anche se come vedremo non riesce pienamente nel suo scopo – la pubblicità on line dei suddetti operatori, nonché le commissioni che aziende come Amazon incassano dalla vendita di beni o servizi su una piattaforma on line. Con questa chiave di lettura, si possono scorrere i commi da 37 in avanti (in appendice) per vedere i ricavi che verrebbero assoggettati a tassazione e le molte esclusioni previste, per cogliere la complessità oggettiva del compito che si è proposto il legislatore. Per esempio, è esclusa la fornitura di servizi bancari digitali (altrimenti, vi sarebbe una sovrattassa sui bonifici online), nonché le vendite on line fatte dai produttori sui propri siti aziendali, con il risultato che una piccola impresa che vende tramite Amazon viene penalizzata rispetto a un marchio famoso che vende sul proprio sito; tassare i siti dei produttori nazionali sarebbe stato peraltro contro lo spirito della norma.
Per considerare un ricavo tassabile, è necessario determinare l’”italianità” della transazione digitale. Il legislatore ha disposto che l’utente che usufruisce del servizio tassabile debba essere su territorio italiano, ossia che il computer/cellulare/smartphone su cui si finalizza il servizio di intermediazione debba avere un IP geolocalizzato in Italia o debba essere comunque localizzabile nel nostro paese.
L’imposta deve essere pagata entro il 16 febbraio dell’anno solare successivo a quello di competenza dei ricavi soggetti a tassazione; dunque il primo pagamento è dovuto nel febbraio del 2021.[10]
Secondo la Relazione Tecnica al provvedimento, la tassa dovrebbe produrre entrate aggiuntive per 708 milioni già a partire dal 2020.
Le criticità della web tax italiana
La web tax che è entrata in vigore quest’anno in Italia condivide con la Digital Service Tax proposta dalla Commissione Europea i due problemi di cui si è detto sopra.
- Essendo una tassa sul fatturato ha un’alta probabilità di essere traslata a valle sugli utenti, finendo così per configurarsi come una tassa che penalizza le imprese italiane e rallenta la trasformazione digitale della nostra società.
- È esposta alla critica degli USA (e in prospettiva della Cina) di essere nella sostanza un dazio, sull’importazione dei servizi digitali delle grandi imprese americane (e cinesi) o comunque una discriminazione nei loro confronti. Infatti, gli Stati Uniti hanno già annunciato che verranno imposti dazi sui prodotti francesi, italiani e britannici se questi paesi non rinunceranno alla web tax.
A queste criticità di ordine generale se ne aggiungono altre, alcune delle quali di natura contingente, altre di natura strutturale e, in quanto tali, più difficili da evitare. Le elenchiamo di seguito:
- Un primo problema riguarda l’apparente contrasto con le norme della privacy. La legge richiede che i soggetti passivi dell’imposta tengano traccia delle transazioni fatte con utenti che utilizzano pc, cellulari o altri dispositivi elettronici localizzati nel territorio dello Stato italiano. “Il dispositivo si considera localizzato nel territorio dello Stato con riferimento principalmente all’indirizzo di protocollo internet (IP) del dispositivo stesso o ad altro sistema di geolocalizzazione” (comma 40bis). Il problema è che le norme sulla privacy danno all’utente il diritto di non essere geolocalizzato. Chiunque abbia uno smartphone sa che si può escludere la geolocalizzazione nelle impostazioni del telefono, in quelle di Google, oppure ancora si può navigare su internet in incognito. Dal punto di vista della tecnologia, è forse possibile geolocalizzare un utente che non vuole essere geolocalizzato, ma questa sarebbe una chiara violazione della volontà dell’utente stesso, volontà che in tutti i paesi avanzati è protetta dalla normativa sulla privacy.[11] Va anche rilevato che il fatto di essere localizzato in Italia non significa essere residente in Italia e dunque soggetto alla fiscalità italiana: in linea teorica, potrebbe così accadere che venga tassata in Italia una società tedesca per la pubblicità vista da un turista cinese che si trova in Italia.
- L’imposta non colpisce solo le grandi imprese estere del web, ma anche molte grandi imprese italiane. In particolare, i gruppi di cui fanno parte grandi imprese italiane di editoria e telecomunicazioni che vendono pubblicità (come RCS, Mediaset, Gedi), superano la soglia di fatturato di 750 milioni. A rigore, ciò comporta che venga assoggettata alla tassa anche la pubblicità veicolata attraverso le concessionarie di queste società. Si avrebbe così il paradosso che la pubblicità che la concessionaria di un grande editore procura al sito di un proprio giornale verrebbe assoggettata alla nuova tassa.[12] Poiché questo esito ci pare evidentemente contrario alla finalità della legge (dato che queste società pagano già le tasse in Italia), immaginiamo che la norma verrà emendata o interpretata in maniera appropriata.[13] L’analoga legge francese si preoccupa del problema in quanto a) specifica una soglia di fatturato nazionale molto più alta di quella della norma italiana (25 milioni di euro anziché 5,5), b) richiede che tale fatturato derivi da servizi on line che vengono tassati (e non da generici servizi on line) e c) specifica che il fatturato mondiale di 750 milioni si deve riferire a ricavi da servizi. Ciò risolverebbe il problema dal momento che in Italia le soglie previste dalla norma vengono superate dalle suddette società in quanto fanno parte di gruppi che fatturano in settori diversi da quelli oggetto della tassazione (automotive, sanità, editoria cartacea, TV ecc.). Il fatto che il problema non abbia trovato soluzione fino ad oggi è dovuto al fatto che ciò comporterebbe una notevole perdita di gettito. È però evidente che la norma nella sua attuale formulazione non può sopravvivere e deve essere cambiata o interpretata in modo opportuno dall’Agenzia delle Entrate.[14]
- Per come è formulata, la norma sembra prevedere che vengano tassati anche i ricavi pubblicitari di chi espone la pubblicità e non solo di chi, come Google, la intermedia attraverso la propria piattaforma on line. Per concretezza, si consideri il sito on line di un giornale che utilizzi per una parte della sua pubblicità l’intermediazione di Google. Fra Google e il giornale ci deve essere un contratto che stabilisce qual è il compenso di intermediazione che viene trattenuto da Google. Se supponiamo che il compenso sia del 10 per cento, su ogni 100 euro di fatturato pubblicitario, 10 euro vanno a Google e 90 al giornale. Appare evidente che la tassa del 3 per cento dovrebbe essere applicata solo al compenso di Google ossia a 10 euro, per un totale di 30 centesimi. Invece, a differenza di ciò che viene previsto per l’eCommerce, la norma non fa riferimento al compenso della piattaforma, ma all’intero fatturato. La tassa quindi è di 3 euro su 100 e dunque per Google è una tassa del 30 per cento (si noti, sul fatturato, non sugli utili). Ovviamente, questo rincaro può essere in parte scaricato a monte, il che aumenterebbe il costo della pubblicità per le imprese italiane, e in parte a valle, attraverso un cambiamento dei contratti fra i siti on line e Google; ad esempio, la ripartizione 90-10 può diventare 87-13. Poiché, la pubblicità on line è una delle poche fonti di utili per i giornali che in Italia, come quasi ovunque nel mondo, attraversano una crisi epocale, appare probabile che la norma venga cambiata o interpretata in modo da evitare di pesare ancora una volta sugli editori.[15]
- Alla luce delle considerazioni di merito sin qui esposte, la stima del gettito atteso (708 milioni di euro dal 2020 in poi) appare eccessiva. Peraltro, all’analoga imposta francese, che opera su un mercato digitale molto più sviluppato, viene attribuito un gettito di soli 500 milioni.[16] Il dato per l’Italia è calcolato nella relazione tecnica al maxiemendamento del governo alla Legge di Bilancio per il 2019.[17] La relazione muove dalla stima fatta dalla Commissione Europea per il gettito della Digital Service Tax (4,7 miliardi per l’intera UE); ad essa applica la quota del Pil dell’Italia (11,2 per cento nel 2016) e aggiunge “i ricavi derivanti dalla trasmissione dei dati raccolti dagli utenti, che pure rappresentano ricavi imponibili”. In questo modo, la relazione giunge ad una stima di 600 milioni nel 2018 che viene incrementata fino 708 milioni nella Legge di Bilancio per il 2020, in ragione del rapido incremento del giro di affari, quale risulterebbe dalla relazione annuale dell’AGCOM. Come notano le relazioni del servizio Bilancio del Senato e della Camera, i riferimenti sono molto scarni, per cui “si rileva l’estrema sintesi della RT nonché la mancanza di dati ed informazioni in assenza dei quali non è possibile verificare positivamente le stime presentate”.[18] Soprattutto, la stima non tiene conto delle moltissime esclusioni presenti nel comma 37bis e, a fortiori, delle considerazioni che sono state fatte ai precedenti punti 2 e 3. Per una stima più realistica, occorre tenere conto che in sostanza la tassa colpirà (o meglio si propone di colpire) i ricavi derivanti da una parte del commercio elettronico e dalla pubblicità on line effettuati dalle imprese che superano le soglie di fatturato (oltre 750 milioni globalmente e 5,5 milioni in Italia).[19]
- Secondo i dati dell’Osservatorio eCommerce B2C del Politecnico di Milano, il commercio elettronico in Italia vale circa 31 miliardi. Da questa cifra vanno escluse le vendite dirette, ossia quelle che non sono intermediate da piattaforme come Amazon. Vanno inoltre tolte le vendite di aziende con meno di 750 milioni di fatturato. La parte mediata da piattaforme colpite dalla web tax si può stimare – per eccesso – in circa il 50 per cento del totale del volume dell’eCommerce, dunque circa 15 miliardi. I compensi applicati variano molto tra le piattaforme – generalmente dal 3 al 15 per cento. Se stimiamo una media – forse per eccesso – del 10 per cento, la “base imponibile” della web tax sull’eCommerce è 1,5 miliardi. Con un’aliquota del 3 per cento, si ha un gettito di 45 milioni.
- Per la pubblicità online, le cose sono un po’ più complesse perché, come si è detto, non è chiaro se la norma tassi anche i grandi editori italiani e se colpisca i compensi delle piattaforme o l’intero fatturato della pubblicità on line. Ipotizzando che la norma voglia colpire solo i compensi delle piattaforme delle multinazionali del web, come nel caso dell’eCommerce, dai dati SIC-Agcom si evince che Google e Facebook rappresentano rispettivamente il 4,1 e il 2,7 per cento dell’intero fatturato della pubblicità (online e tradizionale), che, per legge, è l’oggetto della rilevazione del SIC.[20] Poiché il totale dei ricavi pubblicitari è di 17,5 miliardi, il fatturato delle due aziende suddette è stimato in 1,2 miliardi. Applicando l’aliquota del 3 per cento, si ottiene 36 milioni. In totale, dunque, si ottiene un gettito di 81 milioni.
Conclusione
Il gettito dell’imposta italiana sarà molto modesto quantomeno nell’ipotesi che la tassa, opportunamente emendata o interpretata, colpisca davvero solo i cosiddetti giganti del web e non anche le imprese europee o italiane e che si applichi solo ai compensi della pubblicità on line, ossia a quelli che sono i reali ricavi di aziende come Facebook e Google. Come abbiamo argomentato sopra, qualora vi fossero dubbi interpretativi su questi punti, ci sembra probabile e comunque auspicabile che la norma venga o modificata o interpretata in modo tale da far sì che essa sia applicata davvero e solo ai ricavi delle multinazionali del web.[21]
Aggiungiamo che, al contrario di quelle che erano le intenzioni, la legge non è affatto “autoapplicativa”. Il testo è di difficilissima comprensione e comunque è pieno di ambiguità su questioni di fondo relative ai soggetti che vengono tassati e alla configurazione della base imponibile. Sarà probabilmente necessaria una legge correttiva e comunque una circolare esplicativa e interpretativa da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Inoltre, non è chiaro come si possa risolvere il conflitto con la normativa sulla privacy riguardo alla questione, assolutamente cruciale, della localizzazione territoriale delle transazioni digitali che si intendono tassare.
Infine, occorre tenere conto che l’amministrazione americana ha già minacciato azioni di rivalsa contro le imposte digitali francese, italiana e britannica, in aggiunta ai dazi che erano già stati imposti o minacciati sul complesso delle imprese europee. Il Ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire ha annunciato l’intenzione di sospendere la tassa fino a dicembre 2020. Il Ministro Gualtieri ha ricordato che la web tax italiana non dovrà essere versata prima del febbraio 2021 e ha auspicato un accordo internazionale in assenza del quale l’imposta italiana verrà mantenuta. Al momento dunque, sembra che si sia arrivati ad una situazione di tregua bloccando sul nascere quello che si prospettava come l’inizio di una guerra commerciale; ancora però non si è fatto alcun passo in avanti verso una risoluzione concreta della questione. In ogni caso, un accordo a livello europeo è urgente per ragioni di merito e anche perché consentirebbe di negoziare con gli Stati Uniti da posizioni di maggior forza.
[1] Si veda sul sito dell’Osservatorio CPI: Vito Tanzi, “Lakes, Oceans, and Taxes: Why the World Needs a World Tax Authority” pubblicato in Global Tax Justice nel 2016, versione del paper presentata al meeting “Tax and Global Justice”, svolto al Kings College di Londra nelle giornate del 22-24 novembre 2013. Pubblicato nel 2016 su “Global Tax Justice”, di Thomas Pogge e Krishen Mehta (Oxford University Press).
[2] Il Regno Unito ha cercato di rispondere a queste sfide con una propria versione di web tax, chiamata “Diverted Profit Tax (DPT), introdotta nel 2015. La DPT inglese è strutturata diversamente da quella italiana e francese: prevede un’aliquota del 25 per cento da imporre sui profitti realizzati nel Regno Unito ma poi trasferiti artificiosamente in altri paesi a bassa tassazione per i quali si può dimostrare l’elusione della stabile organizzazione da parte di imprese non residenti.
[3] Il testo del rapporto (“I Giganti del WebSoft – Software & Web Companies, 2014-2019”) è disponibile al seguente link.
[4] L’OCSE si è impegnata ad arrivare in meno di un anno a una proposta conclusiva del progetto “OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS”, che cerca di coordinare 135 paesi nell’implementazione del cosiddetto “BEPS Package”, ossia un pacchetto di 15 azioni volto a ridurre le operazioni di “Base Erosion and Profit Shifting”, cioè l’erosione della base imponibile e lo spostamenti dei profitti che le multinazionali possono utilizzare come tecniche per sfruttare a proprio vantaggio le asimmetrie nella normativa fiscale tra i vari paesi.
[5] European Union: European Commission: “Communication from the Commission to the European Parliament and the Council. Time to establish a modern, fair and efficient taxation standard for the digital economy”. Bruxelles, 21 marzo 2018 COM (2018) 146 versione finale. Disponibile al seguente link. Per una trattazione più sintetica, si veda il seguente link.
[6] Si veda, ad esempio, Ceriani, V. e Ricotti, G. (2018). “The international coordination of corporate taxation: old solutions for new challenges?”, LUISS Guido Carli School of European Political Economy Working Paper 5.
[7] Il fatto che nel ricorso in appello della Apple contro la sanzione europea di 13 miliardi di euro circa, subìta per benefici fiscali che sarebbero stati indebitamente garantiti all’azienda nel corso di vent’anni, si sia associato il governo irlandese, mostra quanto quel governo consideri importante mantenere lo status qui a favore delle multinazionali.
[8] Anche un’imposta sui profitti può essere traslata sul consumatore, ma è meno probabile che ciò avvenga. Infatti, il prezzo che massimizza i profitti di un’impresa con potere di mercato non aumenta quando viene imposta una tassa sui profitti: quest’ultima incide dunque principalmente sugli azionisti dell’impresa e non viene traslata sui consumatori.
[9] Nel 2014 l’Ungheria aveva imposto una tassa sui gigabyte di traffico per gli ISP (Internet Service Provider), sollevando enormi polemiche sul costo che questa scelta avrebbe avuto per i consumatori e sull’ostacolo che la tassa avrebbe costituito per il diffondersi della banda larga. Le proteste indussero il governo a rinunciare alla tassa.
[10] Per ulteriori dettagli, si consulti in Appendice il testo integrato della legge.
[11] La normativa italiana è disponibile sul sito dell’Autorità per la Protezione dei Dati Personali al seguente link.
[12] In analogia a quanto avviene, ad esempio, con Google che, con la nuova imposta, viene tassato sul ricavo derivante dalla pubblicità che mette sul proprio sito principale, che è il motore di ricerca.
[13] Il problema è stato sollevato in una recente mozione parlamentare di Forza Italia, disponibile al seguente link.
[14] Secondo alcuni ciò sarebbe possibile in virtù del fatto che il punto a) del comma 37 parla di “veicolazione” della pubblicità, il che potrebbe essere interpretato nel senso che, per applicare la tassa, occorre che il messaggio pubblicitario sia veicolato da una piattaforma.
[15] Secondo alcuni, un’interpretazione in questo senso da parte dell’Agenzia non sembra impossibile dato che il punto c) del comma 37bis prevede che sia esclusa dalla tassa “la messa a disposizione di un’interfaccia digitale il cui scopo esclusivo o principale è quello della fornitura agli utenti dell’interfaccia da parte del soggetto che gestisce l’interfaccia stessa di: contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento”.
[16] Il primo pagamento della tassa è il 16 febbraio 2021. L’effetto sul saldo netto da finanziare e sul fabbisogno del settore statale nel 2020 dovrebbe quindi essere nullo. Ai fini dell’indebitamento netto, le norme Eurostat consentono però di contabilizzare sull’anno precedente somme incassate “uno o due mesi dopo la fine dell’anno cui si riferisce la competenza”. Si veda il punto 8 di pag. 81 del “Manuale 2019 ESA 2010”, disponibile al seguente link.
[17] Legge 27 dicembre 2018, n. 45.
[18] Dossier del Servizio Bilancio del Senato (novembre 2019, n.99, pag. 215) sull’art. 45 della Legge di Bilancio presentata dal governo al Senato; disponibile al seguente link.
[19] Le stime presentate successivamente sono molto simili a quelle di Massimiliano Trovato sul Leoni Blog del 16 ottobre 2019 “Web tax, il prezzo è giusto?”, disponibile al seguente link.
[20] Si veda a pag.19 dell’Allegato A della delibera Agcom n. 9/19/Cons disponibile al seguente link.
[21] Peraltro il governo ha già accolto come raccomandazione l’o.d.g G/1586/148/5 dell’11 dicembre 2019 che “impegna il Governo, a chiarire che l’imposta sui servizi digitali si applichi esclusivamente ai soggetti esercenti attività d’impresa che generano ricavi, sia a livello nazionale sia a livello globale, da servizi digitali”. Si veda a pag.75 del seguente link.
[22] Commi dal 35 al 49bis della Legge di Bilancio 2019 (L. 27 dicembre 2019 n.145) come integrati dal comma 678 (inizialmente art. 84) della Legge di Bilancio 2020 (L. 30 dicembre 2019, n. 45).
Appendice: testo integrato della web tax[22]
Riportiamo in grassetto le aggiunte introdotte nella Legge di Bilancio 2020 rispetto al testo della Legge di Bilancio 2019:
35. É istituita l’imposta sui servizi digitali.
35-bis. L’imposta si applica sui ricavi derivanti dalla fornitura dei servizi di cui al comma 37, realizzati dai soggetti di cui al comma 36, nel corso dell’anno solare. |
36. Sono soggetti passivi dell’imposta sui servizi digitali i soggetti esercenti attività d’impresa che, singolarmente o a livello di gruppo, nell’anno solare precedente a quello di cui al comma 35-bis, realizzano congiuntamente:
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37. L’imposta si applica ai ricavi derivanti dalla fornitura dei seguenti servizi:
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37-bis. Non si considerano servizi digitali di cui al comma 37:
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38. Non sono tassabili i ricavi derivanti dai servizi di cui al comma 37 resi a soggetti che, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, si considerano controllati, controllanti o controllati dallo stesso soggetto controllante. |
39. I ricavi tassabili sono assunti al lordo dei costi e al netto dell’imposta sul valore aggiunto e di altre imposte indirette. |
39-bis. I corrispettivi versati per la prestazione dei servizi di cui al comma 37, lettera b), comprendono l’insieme dei corrispettivi versati dagli utilizzatori dell’interfaccia digitale multilaterale, ad eccezione di quelli versati come corrispettivo della cessione di beni o della prestazione di servizi che costituiscono, sul piano economico, operazioni indipendenti dall’accesso e dall’utilizzazione del servizio imponibile. |
39-ter. Non sono considerati i corrispettivi della messa a disposizione di un’interfaccia digitale che facilita la vendita di prodotti soggetti ad accisa ai sensi dell’articolo l, paragrafo l, della Direttiva del Consiglio 2008/118/CE del 16 dicembre 2008, relativa al sistema generale di accise e che abroga la Direttiva 92/12/CE, quando hanno un collegamento diretto e inscindibile con il volume o il valore di tali vendite. |
40. Il periodo d’imposta coincide con l’anno solare. Un ricavo si considera tassabile in un determinato periodo d’imposta se l’utente di un servizio tassabile è localizzato nel territorio dello Stato in detto periodo. Un utente si considera localizzato nel territorio dello Stato se:
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40-bis. Il dispositivo si considera localizzato nel territorio dello Stato con riferimento principalmente all’indirizzo di protocollo internet (IP) del dispositivo stesso o ad altro sistema di geolocalizzazione, nel rispetto delle regole relative al trattamento dei dati personali. |
40-ter. Quando un servizio imponibile di cui al comma 37 è fornito nel territorio dello Stato nel corso di un anno solare ai sensi del comma 40, il totale dei ricavi tassabili è il prodotto della totalità dei ricavi derivanti dai servizi digitali ovunque realizzati per la percentuale rappresentativa della parte di tali servizi collegata al territorio dello Stato. Tale percentuale è pari:
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41. L’imposta dovuta si ottiene applicando l’aliquota del 3 per cento all’ammontare dei ricavi tassabili realizzati dal soggetto passivo nel corso dell’anno solare. |
42. I soggetti passivi sono tenuti al versamento dell’imposta entro il 16 febbraio dell’anno solare successivo a quello di cui al comma 35-bis. I medesimi soggetti sono tenuti alla presentazione della dichiarazione annuale dell’ammontare dei servizi tassabili forniti entro il 31 marzo dello stesso anno. Per le società appartenenti al medesimo gruppo, per l’assolvimento degli obblighi derivanti dalle disposizioni relative all’imposta sui servizi digitali è nominata una singola società del gruppo. |
43. I soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato e di un numero identificativo ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, che nel corso di un anno solare realizzano i presupposti indicati al comma 36 devono fare richiesta all’Agenzia delle entrate di un numero identificativo ai fini dell’imposta sui servizi digitali. La richiesta è effettuata secondo le modalità previste dal provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate di cui al comma 46. I soggetti residenti nel territorio dello Stato che appartengono allo stesso gruppo dei soggetti di cui al primo periodo sono solidalmente responsabili con questi ultimi per le obbligazioni derivanti dalle disposizioni relative all’imposta sui servizi digitali. |
44. Ai fini dell’accertamento, delle sanzioni e della riscossione dell’imposta sui servizi digitali, nonché per il relativo contenzioso, si applicano le disposizioni previste in materia di imposta sul valore aggiunto, in quanto compatibili.
I soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, stabiliti in uno Stato diverso da uno Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio Economico Europeo con il quale l’Italia non ha concluso un accordo di cooperazione amministrativa per lottare contro l’evasione e la frode fiscale e un accordo di assistenza reciproca per il recupero dei crediti fiscali, devono nominare un rappresentante fiscale per assolvere gli obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’imposta sui servizi digitali. |
44-bis. I soggetti passivi dell’imposta tengono un’apposita contabilità per rilevare mensilmente le informazioni sui ricavi dei servizi imponibili, cosi come gli elementi quantitativi mensili utilizzati per calcolare le proporzioni di cui al comma 40-ter.
L’informazione sulle somme riscosse mensilmente precisa, ove necessario, l’importo riscosso in una valuta diversa dall’euro e l’importo convertito in euro. Le somme incassate in una valuta diversa dall’euro sono convertite applicando l’ultimo tasso di cambio pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, noto il primo giorno del mese nel corso del quale le somme sono incassate. |
46. Con uno o più provvedimenti del direttore dell’Agenzia delle entrate sono definite le modalità applicative delle disposizioni relative all’imposta sui servizi digitali. |
47. Le disposizioni relative all’imposta sui servizi digitali si applicano a decorrere dal 1° gennaio 2020. |
48. Dall’attuazione della disciplina contenuta nei commi da 35 a 50 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti previsti con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente. |
49. Il Ministro dell’economia e delle finanze presenta alle Camere una relazione annuale sullo stato di attuazione e sui risultati conoscitivi ed economici derivanti dalle disposizioni relative all’imposta sui servizi digitali. Nella Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza (DEF), il Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento delle finanze presenta una relazione sull’attuazione della disciplina relativa all’imposta sui servizi digitali, anche ai fini dell’aggiornamento degli effetti finanziari derivanti dagli stessi. |
49-bis. I commi da 35 a 49 dell’articolo l della legge 30 dicembre 2018, n. 145 sono abrogati al momento di entrata in vigore delle disposizioni che deriveranno da accordi raggiunti nelle sedi internazionali in materia di tassazione dell’economia digitale. |
[1] Si veda sul sito dell’Osservatorio CPI: Vito Tanzi, “Lakes, Oceans, and Taxes: Why the World Needs a World Tax Authority” pubblicato in Global Tax Justice nel 2016, versione del paper presentata al meeting “Tax and Global Justice”, svolto al Kings College di Londra nelle giornate del 22-24 novembre 2013. Pubblicato nel 2016 su “Global Tax Justice”, di Thomas Pogge e Krishen Mehta (Oxford University Press).
[2] Il Regno Unito ha cercato di rispondere a queste sfide con una propria versione di web tax, chiamata “Diverted Profit Tax (DPT), introdotta nel 2015. La DPT inglese è strutturata diversamente da quella italiana e francese: prevede un’aliquota del 25 per cento da imporre sui profitti realizzati nel Regno Unito ma poi trasferiti artificiosamente in altri paesi a bassa tassazione per i quali si può dimostrare l’elusione della stabile organizzazione da parte di imprese non residenti.
[3] Il testo del rapporto (“I Giganti del WebSoft – Software & Web Companies, 2014-2019”) è disponibile al seguente link.
[4] L’OCSE si è impegnata ad arrivare in meno di un anno a una proposta conclusiva del progetto “OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS”, che cerca di coordinare 135 paesi nell’implementazione del cosiddetto “BEPS Package”, ossia un pacchetto di 15 azioni volto a ridurre le operazioni di “Base Erosion and Profit Shifting”, cioè l’erosione della base imponibile e lo spostamenti dei profitti che le multinazionali possono utilizzare come tecniche per sfruttare a proprio vantaggio le asimmetrie nella normativa fiscale tra i vari paesi.
[5] European Union: European Commission: “Communication from the Commission to the European Parliament and the Council. Time to establish a modern, fair and efficient taxation standard for the digital economy”. Bruxelles, 21 marzo 2018 COM (2018) 146 versione finale. Disponibile al seguente link. Per una trattazione più sintetica, si veda il seguente link.
[6] Si veda, ad esempio, Ceriani, V. e Ricotti, G. (2018). “The international coordination of corporate taxation: old solutions for new challenges?”, LUISS Guido Carli School of European Political Economy Working Paper 5.
[7] Il fatto che nel ricorso in appello della Apple contro la sanzione europea di 13 miliardi di euro circa, subìta per benefici fiscali che sarebbero stati indebitamente garantiti all’azienda nel corso di vent’anni, si sia associato il governo irlandese, mostra quanto quel governo consideri importante mantenere lo status qui a favore delle multinazionali.
[8] Anche un’imposta sui profitti può essere traslata sul consumatore, ma è meno probabile che ciò avvenga. Infatti, il prezzo che massimizza i profitti di un’impresa con potere di mercato non aumenta quando viene imposta una tassa sui profitti: quest’ultima incide dunque principalmente sugli azionisti dell’impresa e non viene traslata sui consumatori.
[9] Nel 2014 l’Ungheria aveva imposto una tassa sui gigabyte di traffico per gli ISP (Internet Service Provider), sollevando enormi polemiche sul costo che questa scelta avrebbe avuto per i consumatori e sull’ostacolo che la tassa avrebbe costituito per il diffondersi della banda larga. Le proteste indussero il governo a rinunciare alla tassa.
[10] Per ulteriori dettagli, si consulti in Appendice il testo integrato della legge.
[11] La normativa italiana è disponibile sul sito dell’Autorità per la Protezione dei Dati Personali al seguente link.
[12] In analogia a quanto avviene, ad esempio, con Google che, con la nuova imposta, viene tassato sul ricavo derivante dalla pubblicità che mette sul proprio sito principale, che è il motore di ricerca.
[13] Il problema è stato sollevato in una recente mozione parlamentare di Forza Italia, disponibile al seguente link.
[14] Secondo alcuni ciò sarebbe possibile in virtù del fatto che il punto a) del comma 37 parla di “veicolazione” della pubblicità, il che potrebbe essere interpretato nel senso che, per applicare la tassa, occorre che il messaggio pubblicitario sia veicolato da una piattaforma.
[15] Secondo alcuni, un’interpretazione in questo senso da parte dell’Agenzia non sembra impossibile dato che il punto c) del comma 37bis prevede che sia esclusa dalla tassa “la messa a disposizione di un’interfaccia digitale il cui scopo esclusivo o principale è quello della fornitura agli utenti dell’interfaccia da parte del soggetto che gestisce l’interfaccia stessa di: contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento”.
[16] Il primo pagamento della tassa è il 16 febbraio 2021. L’effetto sul saldo netto da finanziare e sul fabbisogno del settore statale nel 2020 dovrebbe quindi essere nullo. Ai fini dell’indebitamento netto, le norme Eurostat consentono però di contabilizzare sull’anno precedente somme incassate “uno o due mesi dopo la fine dell’anno cui si riferisce la competenza”. Si veda il punto 8 di pag. 81 del “Manuale 2019 ESA 2010”, disponibile al seguente link.
[17] Legge 27 dicembre 2018, n. 45.
[18] Dossier del Servizio Bilancio del Senato (novembre 2019, n.99, pag. 215) sull’art. 45 della Legge di Bilancio presentata dal governo al Senato; disponibile al seguente link.
[19] Le stime presentate successivamente sono molto simili a quelle di Massimiliano Trovato sul Leoni Blog del 16 ottobre 2019 “Web tax, il prezzo è giusto?”, disponibile al seguente link.
[20] Si veda a pag.19 dell’Allegato A della delibera Agcom n. 9/19/Cons disponibile al seguente link.
[21] Peraltro il governo ha già accolto come raccomandazione l’o.d.g G/1586/148/5 dell’11 dicembre 2019 che “impegna il Governo, a chiarire che l’imposta sui servizi digitali si applichi esclusivamente ai soggetti esercenti attività d’impresa che generano ricavi, sia a livello nazionale sia a livello globale, da servizi digitali”. Si veda a pag.75 del seguente link.
[22] Commi dal 35 al 49bis della Legge di Bilancio 2019 (L. 27 dicembre 2019 n.145) come integrati dal comma 678 (inizialmente art. 84) della Legge di Bilancio 2020 (L. 30 dicembre 2019, n. 45).