Quali sono i problemi di diseguaglianza in Italia? E’ in aumento o in diminuzione? Queste domande toccano la vita delle persone e determinano anche le loro scelte politiche.
Le analisi di alcuni economisti della Banca d’Italia (Luigi Cannari e Giovanni D’Alessio, Brandolini et al.) confermano ciò che la Banca d’Italia ha da tempo affermato nelle sue pubblicazioni ufficiali , e cioè che nella recessione del 2008-2014 non sono peggiorate né la distribuzione del reddito né quella della ricchezza, a differenza di ciò che accadde nella recessione dei primi anni novanta che seguì la svalutazione del cambio del 1992. Nel grafico in pagina, tratto dalla Relazione 2016 della Banca d’Italia, è riportato il coefficiente di concentrazione di Gini, un indice che assume valore zero nel caso di massima uguaglianza e 100 nel caso di massima disuguaglianza. Come si vede, la disuguaglianza dei redditi segue un trend discendente fino all’inizio degli anni novanta, ha poi uno scatto verso l’alto attorno al 1993, a seguito della crisi valutaria. Dalla metà degli anni novanta e sino agli anni più recenti, sostanzialmente si stabilizza. Andamento analogo, anche se su livelli più elevati, ha l’indice di concentrazione della ricchezza.
Indicazioni ancora più significative si traggono dall’analisi delle classi di reddito. Nella prima recessione, la distribuzione del reddito è peggiorata, a danno specialmente del ceto medio, mentre nella seconda gli spostamenti sono stati molto modesti e si è addirittura contratta la quota di reddito dei più ricchi.
In sostanza, nell’ultima recessione, l’intera distribuzione dei redditi si è spostata verso il basso, ma le variazioni della distribuzione sono state pressoché insignificanti.
Ad ulteriore conferma di questa analisi, si osserva che è interamente attribuibile all’immigrazione l’aumento, pur modesto, che si osserva nell’incidenza della povertà relativa, la variabile che, come è noto, è stata presa a riferimento dai proponenti del reddito di cittadinanza. Sulla base dell’indagine della Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie, l’incidenza della povertà relativa dei nati in Italia ha oscillato fra l’11 e il 13% dall’inizio del secolo, senza alcun particolare trend. L’incidenza della povertà totale è invece aumentata, dal 12,8% del 2008 al 14,2 nel 2014, perché è aumentata la quota di immigrati, che hanno tassi di povertà attorno al 33-34%, sulla popolazione residente.
Questi dati sembrano in contrasto con l’indicatore utilizzato nell’allegato al DEF (BES) — il rapporto fra la quota di reddito che va al 20% più ricco della popolazione e la quota che va al 20% più povero ― che segnala un peggioramento da vari anni, malgrado il fatto che la quota del 20% più ricco sia assolutamente stabile. Il peggioramento è dovuto essenzialmente al fatto che una quota crescente del quintile più povero è rappresentato da immigrati, che sono mediamente più poveri degli italiani poveri; inoltre anche piccole variazioni della quota di reddito dei più poveri, che si aggira attorno al 6%, generano ampie variazioni del rapporto pubblicato nel DEF.
Ovviamente la povertà degli immigrati è ugualmente importante, ma riflette un fenomeno affatto diverso.
La percezione di un peggioramento nella distribuzione del reddito in parte deriva proprio dall’aumento delle aree di sofferenza e disagio sociale. Malgrado la ripresa in atto, a tutto il 2017 il Pil pro capite dell’Italia era allo stesso livello del 1999 e quando un’economia ristagna per un tempo così lungo qualcuno può anche migliorare la propria posizione, ma molti gruppi sociali la peggiorano.
È pertanto auspicabile che si superi un’applicazione meccanica di singoli indicatori e si dia più spazio a una interpretazione a tutto campo dei dati per capire quali siano effettivamente i fenomeni sottostanti, anche perché su questi numeri poi si giocano le future politiche. A nostro avviso, da queste analisi si dovrebbero trarre due conclusioni.
La prima è che la svalutazione del cambio e l’inflazione sono fenomeni potenti di redistribuzione del reddito a sfavore dei ceti medio bassi. Questo è un punto chiave da ricordare a chi ancor oggi vagheggia l’uscita dall’euro come modo per far riguadagnare non solo competitività di prezzo alle imprese, ma anche ― erroneamente — reddito alle fasce più deboli.
La seconda considerazione è che l’Italia, a differenza probabilmente di molti altri paesi avanzati, ha molto meno bisogno di redistribuzione del reddito. Ha invece bisogno di politiche che consentano di rilanciare la produttività dei fattori, la crescita economica e l’occupazione, che unitamente a un rilancio delle politiche attive sul mercato del lavoro e a un sostegno efficace e selettivo al reddito quando il lavoro viene meno, è il modo migliore per limitare i problemi più acuti di povertà ed emarginazione.
@lorenzocodogno
@GiampaoloGalli
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