Negli ultimi anni per descrivere la condizione dell’economia italiana in molti abbiamo fatto ricorso all’immagine del baratro. Espressioni del tipo “siamo sull’orlo del baratro” oppure “ci siamo allontanati dal baratro” sono diventate di uso corrente e ancora oggi condizionano fortemente il nostro modo di pensare. Un’immagine diversa e forse più appropriata è quella del crinale. Il punto chiave nell’immagine del crinale è che piccole differenze nelle condizioni iniziali possono fare una grande differenza negli esiti successivi, come nel caso dello scalatore che può precipitare o arrivare in vetta sano e salvo, a seconda che metta il piede nel punto giusto oppure un millimetro più in là.
Per ciascuna delle domande cruciali sull’economia italiana, c’è una risposta quasi giusta in positivo e una quasi giusta in negativo e la verità è che dipende: in parte da circostanze esterne, ma in gran parte da noi. Dipende da noi perché è critica la capacità che avremo di fare delle cose concrete che inducano, per usare l’espressione di Keynes, gli animal spirits a credere ancora nell’Italia. Malgrado la crisi abbia depauperato il nostro potenziale produttivo, l’Italia rimane il secondo paese industriale in Europa dopo la Germania e continua a mostrare un’ottima performance nelle esportazioni. E’ per altro verso evidente che se non riprendono gli investimenti in capitale fisico, formazione e ricerca la capacità produttiva continuerà a deperire e alla fine non saremo in grado di mantenere le nostre posizioni.
La ripresa dipende dunque in larga misura dalla capacità che avremo di combattere le paure (quella del baratro, ma anche quelle legate all’incertezza del quadro regolatorio, giuridico e fiscale) e di iniziare a creare condizioni meno ostili all’impresa di quelle che abbiamo ereditato. Non riusciremo a fare in pochi mesi tutto ciò che è necessario. Possiamo però cambiare le “condizioni iniziali”. Molti hanno detto che l’art. 18 non è un gran problema in un senso o nell’altro e che dunque il cambiamento indotto dal Jobs Act non sarà epocale. Può darsi, ma non c’è dubbio che il Jobs Act cambia le condizioni iniziali in misura sensibile. Lo stesso si può dire per la responsabilità civile dei magistrati, per il taglio della componente lavoro dell’Irap e per le riforme istituzionali. Vari centri di ricerca internazionali e nostrani continuano a ripeterci che il nostro debito pubblico è “tecnicamente” insostenibile e che quindi la sorte dell’Italia è segnata: ristrutturazione del debito o default più, secondo alcuni, uscita dall’euro. Ho più volte argomentato che queste non sono soluzioni ma manifestazioni di un baratro terribile per l’economia e anche per la tenuta delle istituzioni democratiche. Ma anche qui il nostro destino non è affatto segnato. L’Ocse nel suo ultimo rapporto sull’Italia disegna diversi scenari, tutti possibili. Il nostro debito può ancora aumentare se non riusciremo a coniugare crescita e disciplina fiscale. Può anche rapidamente diminuire se vi riusciremo e se la politica monetaria inaugurata nei giorni scorsi dalla Bce eviterà lo scenario della deflazione in Europa. A loro volta sia la crescita sia la capacità di mantenere i conti sotto controllo dipendono dalla fiducia che sapremo infondere negli investitori e nelle imprese. Molti di coloro che si oppongono a un percorso riformista, pervicacemente e fino al punto da mettere a rischio la stabilità di governo, lo fanno, a quanto dichiarano, nella convinzione che comunque il nostro debito sia insostenibile e dunque la nostra sorte sia segnata. A costoro diciamo che non c’è solo il baratro, ma c’è un crinale, in parte per meriti nostri e in parte per effetto di condizioni esterne straordinariamente favorevoli riguardo alla politica monetaria, al cambio dell’euro, al prezzo del petrolio, alla ripresa dell’economia mondiale, ai nuovi orientamenti europei in materia di bilanci pubblici. Mancare questa congiunzione di fattori favorevoli sarebbe davvero poco ragionevole.
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