Quasi tutti gli economisti, anche quelli più critici verso l’Unione Monetaria, respingono come troppo rischiosa l’ipotesi di una rottura dell’euro. Da ultimo, Joseph Stiglitz ha voluto chiarire che le sue proposte sono volte a salvare l’euro non certo di affondarlo. Rimane però sul tavolo un’altra ipotesi radicale avanzata dallo stesso Stiglitz e, in Italia, da Lucrezia Reichlin (Corriere della Sera del 14 maggio): la ristrutturazione del debito pubblico. Questa ipotesi gode di un certo credito anche fra alcuni autorevoli consulenti delle cancellerie europee per una ragione che ha ben spiegato Carlo Bastasin sul Sole 24Ore del 7 maggio. Oggi il mercato ci sta dando fiducia perché c’è abbondanza di liquidità nel mondo. Ma si tratta di una fiducia condizionata. Permangono i rischi di una reazione avversa dei mercati fino a quando il debito non inizierà chiaramente a scendere rispetto al Pil. Come dice Bastasin: “Per i prossimi dieci anni, almeno, l’Italia dovrà assicurare una differenza fra entrate e spese pubbliche (al netto della spesa per il servizio del debito) vicino al 5% del Pil. Senza un’economia che cresce, sarà politicamente impossibile”. Ecco dunque il punto chiave. Dobbiamo riuscire a convincere chi investe nel nostro debito che per un lungo periodo di tempo, almeno un decennio, saremo in grado sia di fare riforme per la crescita sia di tenere l’avanzo primario attorno al 5%, che significa tenere all’incirca in pareggio il bilancio complessivo. Se non riuscissimo a fare questo, la ristrutturazione del debito diventerebbe sostanzialmente inevitabile. Alla conclusione che questo sarà il destino dell’Italia arrivano coloro che non hanno più fiducia nel nostro Paese o che, come Stiglitz, rifiutano “l’austerità imposta da Bruxelles”. Questa conclusione è anche quella che sembra quasi dare un senso alle sconclusionate proposte del M5S. Beppe Grillo continua a ripetere che “il paese è già in bancarotta”. E se così fosse avrebbe certamente poco senso preoccuparsi dei conti pubblici. Presto arriverà la catarsi liberatoria del default.
Di fronte a queste posizioni, ritengo di dover argomentare che la ristrutturazione del debito non sarebbe affatto una catarsi liberatoria e non è comunque un’alternativa all’austerity. Essa sarebbe invece una forma parossistica di austerity concentrata in un brevissimo periodo di tempo e produrrebbe una desertificazione del paese, delle sue imprese, del suo capitale umano e tecnologico. E’ infatti del tutto evidente che una ristrutturazione, di necessità forzosa, deve essere nell’ordine di varie decine di punti di Pil, diciamo fra i 30 e i 50 punti, in modo da abbattere in modo decisivo il rapporto debito su Pil. Se fosse più modesta, il debito continuerebbe a non essere credibile e il Tesoro non riuscirebbe più a rifinanziarlo sul mercato. Lo stesso Stiglitz ha spiegato che la ristrutturazione non deve essere fatta come in Grecia, ma deve essere ben più tempestiva e massiccia. Gli italiani – per lo più famiglie ma anche banche e imprese – si vedrebbero quindi più o meno dimezzato il valore dei loro titoli di Stato. Chi avesse investito in un Bot che oggi vale 98 si troverebbe con un titolo magari trentennale con una cedola assai bassa ed un valore di mercato nell’intorno di 50 o 60. In sostanza si tratterebbe di una tassa straordinaria e straordinariamente elevata nell’ordine di svariate decine di punti di Pil. Per confronto la stretta fiscale operata dal governo Monti nel 2012 è stata di 2,5 punti di Pil. Appare evidente che crollerebbe, ben più di quanto non sia accaduto sino ad oggi, la domanda interna con effetti devastanti sulle imprese e sull’occupazione. Un’altra conseguenza sarebbe il default delle banche, con connessa esigenza di operare massicci salvataggi che costringerebbero ad emettere nuovo debito pubblico. E’ difficile immaginare come l’economia possa riprendersi dopo questo shock, anche perché non esistono precedenti in epoca moderna di ristrutturazioni di questa entità in un paese caratterizzato, come è l’Italia, da una diffusione di massa del risparmio e dei titoli di Stato. E’ però certo che ci vorrebbero molti anni segnati da sofferenze sociali mai sperimentate prima.
E’ dunque fuorviante, quantomeno nella sua versione più comune, la contrapposizione fra sostenitori e oppositori dell’austerity. Si può e si deve discutere su come bilanciare meglio nel tempo disciplina di bilancio e sostegno della domanda ed è chiaro che la salvezza passa per politiche capaci di rilanciare la crescita. Ma la contrapposizione profonda, quella su cui si gioca la partita europea, è fra chi pensa che l’aggiustamento debba essere fatto nel corso di molti anni attraverso riforme e consistenti avanzi primari e chi si illude che ci si possa liberare dall’onere del debito con una ristrutturazione. Da una lato una cura lunga e difficile fatta di dosi sopportabili di disciplina, dall’altra una dose massiccia di austerità che ucciderebbe il paziente.
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