Malgrado il blocco dei licenziamenti, il mercato del lavoro si muove: l’occupazione diminuisce quando scende la domanda, come è accaduto durante i lockdown, e aumenta, seppur timidamente, quando la domanda riprende, come è successo nell’estate scorsa e come sta succedendo adesso. La ripresa sarebbe meno timida se le imprese non avessero la paura di nuovi impedimenti alla riduzione del personale quando questa diventa necessaria. Che il mercato si muova è testimoniato dal fatto che il blocco dei licenziamenti fu introdotto con il decreto Cura Italia che entrò in vigore il 17 marzo e bloccò anche le procedure in atto dalla data del 23 febbraio. Ebbene, la grande perdita di posti di lavoro si verificò proprio nei mesi iniziali del blocco: -330mila a marzo (rispetto a febbraio), – 569mila ad aprile.
L’unico effetto del blocco è stato quello di scaricare gran parte dell’onere sui contratti a termine, sulle partite Iva, sui dipendenti anche a tempo indeterminato delle microimprese che hanno chiuso, e sui giovani che hanno smesso, almeno per po’, di sperare e sono diventati, come dice l’Istat, inattivi. Ma il mercato si muove anche in senso inverso: fra giugno e settembre dell’anno scorso, gli occupati sono aumentati di 50mila unità. Lo stesso è successo quest’anno, in soli due mesi fra gennaio e marzo. Certo, 50 mila sono pochi, la ripresa è timida. Sarebbe meno timida se le imprese fossero certe che non ci saranno nuove proroghe del blocco. Sarebbe addirittura vigorosa se il governo avesse il coraggio di ripristinare il nucleo essenziale, anche se non la lettera, del Jobs Act, ossia la certezza dei costi del licenziamento individuale in funzione dell’anzianità aziendale.
Quella certezza è venuta meno per effetto di una sentenza della Corte Costituzionale del 2018 che ha stabilito che il giudice deve avere un margine di discrezionalità nello stabilire i costi, per cui oggi un’impresa non sa se rischia 6 o 36 mesi di stipendio. Peggio ancora, spiegano i giuslavoristi, sempre più spesso i giudici trovano un cavillo per reintegrare i lavoratori; tanto che – dice qualcuno – il mercato del lavoro è oggi più rigido di prima della riforma. Si stabilisca una scalettatura del costo in funzione dell’anzianità, attorno alla quale il giudice possa avere un margine di un x per cento da definirsi e si delimitino meglio i confini della reintegra, solo per i casi di discriminazione. Non è difficile, ma forse è troppo semplice per diventare vero.