Come al solito, al tavolo delle trattative fra governo e sindacati non ci sono gli outsiders, cioè quella maggioranza di lavoratori invisibili che non sono rappresentati dai sindacati e che sono quelli che hanno pagato i costi della crisi. Il blocco dei licenziamenti non ha cambiato di una virgola la perdita complessiva dei posti di lavoro, ma ne ha scaricato l’onere sulle categorie non protette. A gennaio di quest’anno, l’Italia aveva perso più di un milione di posti di lavoro rispetto al gennaio del 2020, non meno degli altri paesi in cui il blocco non è stato introdotto. Si sono persi 333 mila posti di lavoratori a termine; si sono ridotti gli ordini verso quella enorme massa di lavoratori autonomi, che sono una particolarità del nostro paese e che nell’anno del Covid sono diminuiti di ben 362 mila unità. Sono diminuiti anche, di 325 mila unità, i posti a tempo indeterminato; giovani che non sono stati assunti e dipendenti di micro imprese che hanno chiuso e che nessuno vede. Hanno perso il lavoro molti lavoratori irregolari, ignoti alle istituzioni e alle statistiche.
Non si può neanche dire che il blocco abbia avuto l’effetto di diluire nel tempo la perdita di occupati. Il blocco fu introdotto con il decreto Cura Italia che entrò in vigore il 17 marzo e bloccò anche le procedure in atto dalla data del 23 febbraio. Ebbene, la grande perdita di posti di lavoro si verificò proprio nei mesi iniziali del blocco: -330mila a marzo (rispetto a febbraio), – 569mila ad aprile.
Per fortuna, malgrado il blocco, il mercato del lavoro, reagisce in positivo anche agli aumenti della domanda. E’ successo nell’estate scorsa quando sembrava che la pandemia fosse alle spalle e gli occupati sono saliti molto rapidamente. Sta succedendo adesso: fra gennaio e marzo, in soli due mesi, gli occupati censiti dall’Istat sono aumentati di 50 mila unità.
La ripresa sarebbe più vigorosa se le imprese non avessero paura di nuovi blocchi e se il governo avesse il coraggio di affrontare una questione che è urgente, ma di cui stranamente nessuno parla. Un aspetto chiave del JobAct, la certezza dei costi del licenziamento, è stato messo in crisi da una sentenza delle Corte Costituzione del 2018 che ha stabilito che il giudice deve avere un margine di discrezionalità nello stabilire i costi del licenziamento. Per cui oggi un’impresa non sa se rischia 6 o 36 mesi di stipendio. Peggio ancora, spiegano i giuslavoristi, sempre più spesso i giudici trovano un cavillo per reintegrare i lavoratori; tanto che – dice qualcuno – il mercato del lavoro è oggi più rigido di prima della riforma. Si stabilisca una scalettatura del costo in funzione dell’anzianità, attorno alla quale il giudice possa avere un margine di discrezionalità e si delimitino meglio i confini della reintegra, solo per i casi di discriminazione. Non è difficile, ma perché si avveri al tavolo delle trattative ci dovrebbero stare quel milione di persone che hanno perso il lavoro nel 2020, ma che nessuno ha visto e nessuno conosce.