La leggerezza sconvolgente con cui si parla di una possibile uscita dall’euro dovrebbe farci riflettere sulla nostra innata tendenza a farci del male. Gratuitamente. Proprio quando l’economia mostra qualche segno di ripresa, c’è chi accarezza scenari catastrofici con colpevole sufficienza. Il no alla moneta unica è il grido di battaglia elettorale di Salvini e Meloni. Così come la tentazione di una valuta parallela (i certificati di credito fiscale) accomuna Cinquestelle a Forza Italia. Che cosa non si fa per raggranellare, ingannando la gente, qualche consenso in più! Proviamo ad immaginare, dunque, che cosa accadrebbe se un giorno l’Italia decidesse di rinunciare alla moneta unica.
Lo scenario
È un evento, innanzitutto, non previsto dai trattati europei. Esiste una procedura per uscire dall’Ue, come sta facendo il Regno Unito, ma non dall’euro. Comprensibile, perché la forza di una valuta si basa sulla sua irreversibilità. I sostenitori del ritorno alla lira sono convinti che il ritrovato potere sul tasso di cambio possa favorire competitività ed esportazioni. In un recente position paper, Prometeia smonta questa perniciosa illusione: i vantaggi sul lato della competitività svaniscono in meno di due anni. Non così i costi, devastanti e duraturi. Una probabile svalutazione della nuova lira farebbe crescere il valore del debito emesso in euro. L’appartenenza al mercato unico verrebbe messa in discussione. Gli altri Paesi reagirebbero. In una guerra commerciale risulteremmo soccombenti. «Sono sorpreso — dice Lorenzo Forni, docente di Economia all’Università di Padova e segretario generale di Prometeia — dalla superficialità con cui si affronta il tema, in un momento nel quale il clima di fiducia migliora, la ripresa si rafforza , la produttività seppure lentamente migliora. Restare nell’euro ha certamente un costo, in termini di riforme e di aggiustamento fiscale, che può però essere reso sopportabile e socialmente equo. Uscire avrebbe conseguenze enormi e imprevedibili. Ma, soprattutto, pagherebbero i più deboli.
La svalutazione
Un solo esempio, l’uscita comporterebbe una forte svalutazione, con conseguente inflazione, il potere d’acquisto di salari e risparmi crollerebbe». Dunque, fatte le doverose premesse, addentriamoci nella sceneggiatura dell’Italexit. Cominciamo dal timing. Cruciale. Non si fa tutto dalla mattina alla sera, a mercati chiusi, come accadeva assai più facilmente, quando si trattava di riallineare (svalutare) la lira all’interno del sistema monetario europeo. Alla prima indiscrezione su un’uscita dell’Italia dall’euro, la fuga di capitali sarebbe massiccia. Una delle ragioni del disavanzo italiano nel cosiddetto Target 2, è già spiegabile con il comportamento di operatori che, vendendo titoli di Stato alla Banca d’Italia grazie al Quantitative Easing, trattengono capitali all’estero. Ha spiegato il presidente della Bce Mario Draghi, rispondendo a una interrogazione dei parlamentari europei Marco Zanni e Marco Valli: «Attivo e passivo tra la banca nazionale che decidesse di non emettere più euro e Francoforte andrebbero regolati in pieno». Oggi il nostro passivo è di 360 miliardi. Ecco un altro costo del check out. Nel momento in cui gli sventurati governanti italiani dovessero sedersi al tavolo di un negoziato per l’uscita, l’emorragia di capitali sarebbe già incontrollabile e non avremmo la garanzia della Bce per assicurare la liquidità al sistema bancario. Non potremmo contare sull’aiuto del Fondo salva Stati. Risparmi e depositi in euro di chi può farlo (i redditi più alti, come in Grecia) sarebbero già quasi tutti scappati. Addio.
Un lento incubo
La ridenominazione (così si chiama in termini tecnici ) si trasformerebbe in un interminabile incubo. Non si torna alla lira in pochi giorni. Immaginate solo gli infiniti passaggi tecnici che, non gestiti, scatenerebbero sfiducia se non panico. Ridenominare il debito (2.250 miliardi, il 133 per cento del Pil) in altra valuta è possibile? Teoricamente sì, ma ridenominare non significa nient’altro che dichiarare default. Chi ci ha prestato soldi in euro (un terzo del debito pubblico è collocato all’estero) non vorrà essere pagato in una divisa svalutata. Il Paese perderebbe l’accesso ai mercati, ai quali chiede ogni anno centinaia di miliardi per rinnovare Bot e Btp che, in caso di Italexit, subirebbero un immediato tracollo nelle quotazioni. Con conseguenze prevedibili sui bilanci delle banche e delle istituzioni finanziarie che possiedono nei loro portafogli titoli pubblici per 830 miliardi di euro. Dopo il default, l’Argentina perse per dieci anni l’accesso ai mercati e venne trascinata in una lunga diatriba giudiziaria, con il risultato di ingrassare i “fondi avvoltoio” che si erano tenuti i titoli del debito di Buenos Aires non onorato.
Fuori legge globale
La situazione di un ipotetico Italexit sarebbe diversa, ma chi fa default si trasforma fatalmente in un fuorilegge globale. L’intero Paese viene risucchiato in un vortice legale internazionale dagli esiti incerti ma dai costi certissimi. Anche per i privati e per le aziende. La nostra è un’economia di trasformazione. Vive anche grazie all’export. Il saldo positivo record della bilancia commerciale nel 2016 (51,7 miliardi) è segno di forte vitalità e competitività della nostra industria. L’onere di una perdita di credibilità dell’intero made in Italy non sarebbe compensata da un modesto e poco duraturo vantaggio sui prezzi. Chi vagheggia le verdi vallate della libertà di cambio dimentica e sottovaluta la tassa occulta rappresentata dall’inflazione che è per sua natura distorsiva e ingiusta. Le importazioni diventerebbero fatalmente più care, penalizzando soprattutto i redditi più bassi. Un ripasso della storia degli anni Settanta e Ottanta sarebbe salutare. «L’amara realtà — conclude Forni — è che la ristrutturazione del debito attraverso l’uscita dall’euro si trasformerebbe in una patrimoniale selvaggia a danno di tutti i detentori di titoli pubblici». Un esempio di macelleria sociale. Alla fine, con la lira svalutata in mano, avremmo un Paese più povero e diseguale. L’Italia è bene ricordarlo non ha mai fatto default dall’Unità, a differenza di altri e più titolati Paesi. E l’esperimento recente della ristrutturazione del debito greco non si può definire un successo. Forse non è il caso di provarci ora. E forse sarebbe opportuno non parlarne più. La moneta è uno strumento dell’economia, una misura dello scambio, non è l’albero del pane. Né il vestito che può farci apparire più magri. È la salute del corpo quella che conta.
11 aprile 2017