Secondo alcuni il governo non starebbe facendo quanto aveva promesso in materia di riduzione delle tasse e della spesa pubblica. La tesi appare abbastanza singolare dato il cospicuo ammontare delle quattro misure principali che sono state attuate: la conferma del bonus Irpef da 80 euro, l’eliminazione dell’Irap lavoro sui contratti a tempo indeterminato, la decontribuzione triennale per i neoassunti e il nuovo regime agevolato per i contribuenti minimi. E’ però vero che la lettura dei documenti di bilancio è sempre complessa e, quest’anno, presenta alcune ambiguità che è utile chiarire.
Una prima questione riguarda la contabilizzazione del bonus Irpef come maggiore spesa, anziché come minore entrata. Si tratta, come noto, di 10 miliardi inclusivi del cosiddetto bonus bebè. Quando il Ministro Padoan dice che la pressione fiscale diminuirà poco, dal 43,3% del 2014 al 43,2 nel 2015, fa riferimento, come è forse giusto visto il suo ruolo, al dato contabile e non a quello sostanziale. Il fatto è che nel bonus c’è effettivamente una piccola componente – stimata in non più del 10% – che può forse essere considerata una maggiore spesa. E’ la parte del bonus che va ai contribuenti detti “incapienti parziali”, ossia coloro che stando poco sopra la soglia dell’area no-tax hanno un debito fiscale inferiore a 960 euro. Costoro diventano beneficiari di una vera e propria “negative income tax”. Secondo le regole Eurostat questa componente va considerata come una maggiore spesa e, pur essendo minoritaria, è assorbente, ossia fa sì che l’intera misura del bonus venga considerata come maggiore spesa.
Una seconda questione riguarda le clausole di salvaguardia. Alcuni vedono le maggiori imposte che si realizzerebbero nel 2016 e nel 2017 nel caso in cui non si facessero i tagli di spesa sui quali in realtà punta il governo, ma non vedono che questi stessi tagli di spesa consentono di superare la clausola di salvaguardia di 3 miliardi che era stata prevista per il 2015 dalla legge di stabilità dell’anno scorso. Se si vogliono, prudenzialmente, considerare le clausole per 2016 e il 2017 come maggiori imposte, allora non si possono non considerare come minori imposte i 3 miliardi che ci vengono risparmiati nel 2015.
Ragionando in questo modo, come fa la Banca d’Italia nell’audizione di Federico Signorini del 3 novembre, si ottengono riduzioni di imposte per 8,5 miliardi, al netto del bonus Irpef. Aggiungendo i 10 miliardi del bonus si arriva oltre la cifra che il Presidente del Consiglio aveva annunciato nelle famose slides della conferenza stampa del 15 ottobre.
Naturalmente non ci sono solo riduzioni di tasse. Ci sono anche gli aumenti, che la Banca d’Italia cifra complessivamente in 7,5 miliardi. Di questi però una buona parte è rappresentata da misure che non sono classificabili come aumenti di tasse: a) precise misure di contrasto all’evasione (almeno 3,3 miliardi per misure quali inversione contabile, split payment ed effetti delle dichiarazioni precompilate sui soli soggetti business), b) anticipi d’imposta per rivalutazioni volontarie e ritenute d’acconto (per 1,1 miliardi), c) retroazioni fiscali da maggiori spese (es. 485 milioni connessi al piano scuola) e d) assoggettamento alle norme generali dei gestori di giochi non concessionari (900 milioni). Rimane poco più di un miliardo di veri e propri aumenti di tasse che riguardano principalmente i fondi pensione, il Tfr tassato ad aliquota marginale, le polizze vita, la perdita del privilegio fiscale di cui godevano le fondazioni. Vi è inoltre il ritorno dell’aliquota Irap ai valori del 2013. Di queste misure si sta discutendo in questi giorni in parlamento.
E’ comunque evidente che i tagli alle tasse ci sono e sono molto consistenti. Quanto ai tagli di spesa, essi ammontano esattamente, non un euro di più non uno di meno, a quanto è necessario e sufficiente per dare copertura ai tagli delle tasse, tenuto conto dell’aumento del disavanzo dal 2,2 al 2,6%, nonché di alcuni aumenti di spesa sui quali è sempre possibile, ma non è affatto facile, obiettare quali: 1,5 miliardi per gli ammortizzatori sociali, 1 miliardo per il piano scuola, 2,2 miliardi di maggiori spese in conto capitale, rappresentate principalmente dall’allentamento del patto di stabilità interno e dal credito d’imposta per la ricerca, e infine 3,7 miliardi legati al passaggio dal criterio della “legislazione vigente” a quello delle “politiche invariate”, ossia al fatto che quest’anno si è deciso di fare chiarezza nel bilancio e di finanziare sin dall’inizio quelle spese – quali ad esempio le missioni all’estero – che nel passato venivano invece finanziate in corso d’anno, dando adito al sospetto che vi fosse “polvere sotto il tappeto”. Anche queste voci di spesa facevano parte degli annunci. Ne faceva parte persino l’ultima, che pure ha natura eminentemente tecnica e, in quanto tale, ha assai poco appeal sul piano della comunicazione politica.
Giampaolo Galli
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