Sottoporre a equa tassazione le imprese multinazionali, in particolare quelle che operano nel mondo dei bit, è necessario, ma è tremendamente difficile in assenza di un accordo internazionale. Lo dimostra una volta di più la tassa del 3% sui fatturati di queste imprese che è entrata in vigore all’inizio di quest’anno, sulla scorta del precedente francese, e che ha già indotto Trump ad annunciare ritorsioni commerciali contro i prodotti italiani e francesi. Un primo problema della webtax italiana è che, per come è formulata, colpisce anche i nostri grandi editori perché anch’essi, come Google e Facebook, vendono pubblicità on line, ad esempio sui siti dei grandi giornali e delle TV, e perché fanno parte di gruppi che superano la soglia di fatturato mondiale stabilito dalla norma (750 milioni). Si tratta di uno straordinario paradosso se si pensa che gli editori sono stati i principali fautori della tassa, un paradosso che ha però una spiegazione: esso nasce dal fatto che ormai quasi tutte le imprese, anche quelle old economy, si stanno digitalizzando e stanno dunque diventando in parte imprese new economy. Il problema dovrebbe essere risolvibile modificando la definizione, già incredibilmente barocca per via delle molte esclusioni, dei soggetti passivi o dell’imponibile, ma con tutta probabilità richiede che si torni in Parlamento dove è quasi certo che emergeranno altri problemi simili a questo.
Un secondo problema è la difficoltà di applicare al web le regole fiscali del secolo scorso. La norma si preoccupa ovviamente di tassare il fatturato italiano, ossia rinveniente da attività – essenzialmente ricavi da pubblicità on line e margine sugli acquisti on line – effettuate tramite dispositivi localizzati sul territorio nazionale. Per fare questo impone alle imprese tassate di tenere una contabilità separata delle transazioni fatte in Italia e a questo fine dispone che si utilizzi l’IP o “altro sistema di geolocalizzaione”. Il problema è che è un ovvio diritto dell’utente di non essere geolocalizzato e che questo diritto è gelosamente tutelato dalla normativa sulla privacy: per questo motivo, come sa chiunque utilizzi uno smartphone, la geolocalizzazione può essere esclusa nelle impostazioni del telefono, in quelle di qualsiasi app o anche navigando in incognito. Ed è difficile immaginare che lo stato italiano possa obbligare imprese private come Google o Facebook a tenere traccia dei movimenti di persone che chiedono che sia rispettata la loro privacy. Si noti inoltre che, stando alla lettera della norma, l’Italia si arroga il diritto di tassare i ricavi pubblicitari in funzione delle visualizzazioni effettuate in Italia, anche se ciò che viene visualizzato è un annuncio – poniamo – della BBC sul sito di google.uk, cui corrisponde ovviamente un passaggio di denaro che non coinvolge né l’Italia né soggetti residenti in Italia. Un problema ancora più fondamentale è che nessuno sa esattamente quali imprese siano soggette all’imposta. Ad esempio, sembra che TikTok, un app cinese, stia soppiantando Istagram e Facebook fra gli adolescenti italiani, ma come si fa a saperlo? A meno che TikTok sia uno strumento di spionaggio del governo cinese, come paventa il nostro Copasir, probabilmente non lo sa neanche l’impresa stessa, per la quale un adolescente italiano non è diverso da uno francese o neozelandese. Di certo non lo sa il fisco italiano. E chissà quante altre app vengono usate dagli italiani, di cui il fisco non è a conoscenza o comunque non sa se stanno dentro o fuori il perimetro della tassazione. Forse la proposta che è attualmente in discussione all’OCSE (il cosiddetto “Unified Approach”) è in grado di superare questi problemi, con una formula in gran parte convenzionale di ripartizione dei profitti fra Stati. Intanto, il fisco italiano ci prova, muovendosi alla cieca e sperando che qualcuno cada nella rete. Una cosa è certa: dei 708 milioni che sono stati messi a bilancio se ne incasseranno, se va bene, poco più di un decimo.