Fisco e investimenti, due filoni per il governo – Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2017

Come incide sull’azione di governo la grande confusione che regna nella politica italiana? Riesce il governo a decidere oppure si sta materializzando quello spettro del “tirare a campare” che Paolo Gentiloni dice di voler scongiurare?

Guardando ai dati sull’attività legislativa sembra che il governo sia piuttosto attivo. Nei primi tre mesi di attività il Governo ha approvato ben 64 provvedimenti legislativi, alcuni importanti (sicurezza, immigrazione, terremoto, salva risparmio, Mezzogiorno). Il numero medio di provvedimenti approvati mensilmente dal Consiglio dei Ministri è superiore a quello dei precedenti tre governi. Molti sono i provvedimenti attuativi di leggi approvate dal precedente governo (tra cui cinque decreti della riforma Madia, otto della buona scuola e tre delle unioni civili). Queste attività, assieme allo stile sobrio della comunicazione e al forte impegno europeista del premier, hanno dato il segnale che ci si aspettava da questo governo: l’Italia non è allo sbando, è governata e non ha rinunciato a realizzare le riforme per la crescita. Il governo ha così contribuito a svelenire il clima politico, a rassicurare gli italiani e a contenere i timori dei mercati finanziari all’indomani della vittoria del no al referendum. Si muove in questa stessa direzione la sofferta decisione di disinnescare il referendum sui voucher.

Più difficile è valutare l’attività amministrativa del governo, che a volte è anche più importante dell’attività legislativa. Limitando lo sguardo alle questioni strettamente economiche, vi sono almeno due filoni di attività che sono cruciali e hanno carattere di straordinarietà. Il primo è l’attuazione delle impegnative riforme fiscali approvate l’anno scorso, la cui finalità è di aumentare il recupero di gettito oltre il valore molto alto del 2016 (19 miliardi) e soprattutto di migliorare il livello di fedeltà fiscale che rimane fra i più bassi d’Europa. Il secondo è il rilancio degli investimenti, pubblici e privati, che rimangono la gamba debole della ripresa dato che si collocano ancora 30 punti percentuali sotto i livelli pre-crisi; ciò richiede la piena attuazione del piano Industria 4.0, la realizzazione dei patti per il Mezzogiorno e una gestione efficiente delle ingenti risorse (11 miliardi in tre anni) stanziate nell’ultima legge di bilancio per gli investimenti pubblici. Come si vede, si tratta di questioni ereditate dal precedente governo e sulle quali, almeno in via di principio, non dovrebbero esserci opposizioni pregiudiziali. Ma nulla è scontato: in particolare, molte amministrazioni fanno fatica a spendere perché non hanno i progetti, ma anche perché si trovano a fare i conti con i blocchi così ben documentati dall’Osservatorio Nimby, di cui ha dato conto questo giornale nei giorni scorsi. E, come è evidente dal caso del gasdotto Tap, le tensioni politiche riescono a fare danni notevolissimi anche in questo settore.

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Le difficoltà maggiori insorgono in quella vasta area dell’azione di governo che riguarda i rapporti con la Commissione Europea. Qui si intrecciano principalmente tre questioni: l’intervento sulle banche, la manovra aggiuntiva da 3,4 miliardi per l’anno in corso e la legge di bilancio per il 2018.

Sulle banche, dopo il fallimento dell’operazione di mercato su Monte dei Paschi, che era comunque giusto tentare, ora è urgente intervenire con l’operazione pubblica, nei termini che sono stati autorizzati dal Parlamento. È in corso un’estenuante trattativa con la DG concorrenza, ma dovrebbe essere chiaro a tutti che il tempo è scarso e che l’esito non può in nessun caso essere un fallimento. Sulla manovra aggiuntiva la Commissione ci incalza quasi ogni giorno. La questione della legge di bilancio per il 2018 viene invece lasciata sullo sfondo, ma forse è proprio da qui che dovrebbe partire il ragionamento con Bruxelles, essendo evidente che l’obiettivo per l’indebitamento netto del 2018 (1,2% del Pil) è fuori dalla nostra portata. Secondo le ultime previsioni della Commissione il tendenziale per il 2018 (assumendo che non vengano attivate le clausole di salvaguardia) sarebbe al 2,6%. Il che comporterebbe una manovra da 1,4% del Pil, quasi 25 miliardi. Una restrizione di bilancio così forte avrebbe l’effetto di azzerare la già modesta crescita dell’Italia (1,1% nel 2018 secondo la Commissione). Le difficoltà politiche emergono quando si tratta di definire quale altro obiettivo negoziare per il 2018 e con quali contenuti. Su questi punti, che riguardano le scelte di fondo della politica economica, ci sono posizioni molto diverse all’interno della maggioranza. Forse l’unico modesto consiglio che si può dare in una situazione così delicata è quello di decidere: il governo senta tutti, decida e, con la presentazione del DEF, venga in Parlamento a spiegare. In Parlamento è improbabile che in questo momento qualcuno voglia far venire meno il sostegno al governo.

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