Dall’incontro di Cernobbio è emerso con chiarezza che le cose realizzate dal governo Renzi in un anno e mezzo stavano in cima agli elenchi delle riforme per la competitività e la crescita che si compilavano, con poco costrutto, da almeno venti anni.
Riduzione di fatto dell’Irpef sul lavoro dipendente tramite gli 80 euro, eliminazione dell’Irap lavoro, riforma Poletti del contratto a tempo determinato, abolizione dell’art. 18, decontribuzione sui nuovi assunti – ancorché con caratteristiche di una tantum -, trasformazione in spa delle banche popolari, riforma elettorale: basterebbero queste misure per caratterizzare questo governo come uno dei più fattivi nella storia della Repubblica. Renzi può non risultare simpatico a molti, ma è un fatto che con queste misure l’elenco delle grandi riforme che rimangono da fare si è più o meno dimezzato. Peraltro la velocità con cui sono state realizzate, unitamente al mantenimento di un ragionevole equilibrio del bilancio pubblico, ha suscitato opposizioni formidabili. Ciò non stupisce. Se fosse stato facile farle, sarebbero già state fatte. Peraltro che esse dovessero essere fatte, al di là dei dettagli, lo sapevano tutti. Non le si facevano perché si riteneva che fossero politicamente troppo costose o perché si preferiva un approccio graduale, basato su compromessi al ribasso. Insomma fino ad ora, con poche eccezioni, nel centro sinistra e più ancora nel centro destra ha prevalso l’idea che fosse meglio andare lentamente ma tutti insieme. Renzi ha rovesciato questo approccio facendo prevalere l’idea che le riforme vanno fatte tutte insieme o comunque in una sequenza rapida e con una scansione annunciata sin dall’inizio. Solo in questo modo si riesce a far capire agli elettori e agli osservatori internazionali la direzione di marcia e, soprattutto, a far prevalere gli interessi della maggioranza della popolazione su quelli delle corporazioni di volte in volta colpite dalle riforme. Ora il premier rilancia con le riforme che rimangono da fare o da completare nel loro iter parlamentare o da attuare concretamente: la Costituzione, la pubblica amministrazione, la giustizia e soprattutto l’ulteriore taglio delle tasse. Da economista mi sono speso, anche durante la campagna elettorale del 2013, per argomentare che la tassa sulla casa, anche sulla prima casa, è una tassa fra le meno distorsive. Se questo fosse l’unico punto o il principale della politica economica del governo non avrei altro da aggiungere. Ma non è così. In termini puramente economici, fatto 100 il complesso delle realizzazioni di Berlusconi, l’abolizione dell’IMU valeva un buon 70. Per Renzi al più vale 10. E allora la domanda è se si debba ragionare solo in termini economici e non anche in relazione alla capacità di portare a compimento il complesso del progetto di cambiamento, incluso il necessario potenziamento della spending review. Il fatto è che in Italia negli ultimi anni la tassa sulla casa è stato il simbolo del gran pasticcio della politica, la prova provata che le promesse si fanno e non si mantengono, la dimostrazione che alla fine la sinistra è sempre quella del tassa e spendi. Colpa (o merito) della propaganda della destra? Può darsi, ma è anche vero che gli italiani hanno toccato con mano cosa vuol dire non sapere fino all’ultimo minuto quante tasse pagare e addirittura quali tasse pagare. Insomma un gran pasticcio. Chiediamoci se, liberandoci di questo pasticcio, non ci sia più facile avere i consensi necessari per portare a termine le altre riforme avviate, quelle che più servono per dare vigore ad una ripresa ancora fragile. Forse non conta solo la “economics” nel senso alto di Paul Samuelson, ma contano anche la “political economy” e la psicologia collettiva.
Giampaolo Galli
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