Il Documento di Economia e Finanza si muove lungo un crinale sottile: da un lato bisogna avviare la riduzione il debito pubblico, dall’altro vanno attuate politiche per dare più vigore alla crescita.
Questo ci impone di continuare con rinnovato vigore lungo la linea che è stata seguita negli ultimi anni e che ha consentito di ridurre gradualmente il disavanzo dal 3% del 2014 al 2,4% nel 2016, creando anche lo spazio, attraverso la spending review (25 miliardi in tre anni) e la lotta all’evasione (19 miliardi nel 2016), per robuste misure a sostegno della crescita.
Dovremo però fare i conti con il fatto che sarà difficile replicare tagli di spesa rilevanti come quelli degli ultimi anni, perché con una leadership politica indebolita le lobby della spesa tornano a chiedere la loro parte.
Dovremo soprattutto fare i conti con una tendenza al rialzo dei tassi d’interesse – e dunque del costo del debito – che è iniziata dopo l’estate, quando hanno cominciato a circolare sondaggi che davano per favorito il NO al referendum, e si è rafforzata nelle settimane successive, man mano che i mercati percepivano la condizione di stallo in cui era entrata la politica italiana.
Alla faccia di quelli che dicevano che il referendum non avrebbe inciso sulla condizione finanziaria dell’Italia, il nostro spread con la Germania ha ormai superato i 200 punti base, 70 punti sopra la Spagna. A queste sviluppi si aggiungeranno gli effetti del graduale superamento della politica monetaria iper espansiva sin qui seguita dalla Bce.
E qui si viene al nocciolo della questione su cui si giocherà davvero la partita con Bruxelles da oggi all’autunno. E’ chiaramente poco ragionevole chiedere all’Italia una manovra che porti il deficit del 2018 all’1,2 per cento dal 2,1 del 2017 perché questo comporterebbe una stretta che soffocherebbe la ripresa. Il problema è che le regole sono le regole e non è facile cambiarle.
Tuttavia vari paesi, oltre all’Italia, hanno chiesto di rivedere alcuni aspetti tecnici dei parametri con cui si calcola il deficit strutturale e può darsi che su questo fronte ci siano degli sviluppi interessanti. Inoltre, si sta rafforzando una corrente di pensiero, di cui è oggi capofila l’Ocse, secondo cui in Europa molti paesi – tra cui Germania, Francia, Regno Unito, Austria e Olanda – dovrebbero realizzare politiche di bilancio più espansive.
In un quadro europeo più favorevole alla crescita, l’Italia, sempre secondo l’Ocse, potrebbe attuare un aggiustamento più graduale di quello che è attualmente previsto.
Non bisogna però dimenticare i fattori di fragilità finanziaria cui è esposta l’economia internazionale e che riguardano in particolare i paesi ad alto debito come l’Italia: la grande massa di liquidità immessa nel sistema dalle banche centrali sta producendo una bolla speculativa nei valori di borsa e negli spread che, secondo molti analisti, sarebbero ormai scollegati dalle prospettive dell’economia reale.
Ne conseguirebbe che l’Italia dovrebbe preoccuparsi non solo dell’effetto, per così dire, meccanico della fine del QE sui tassi di interesse.
Dovrebbe anche preoccuparsi di un evento molto peggiore che consisterebbe nello “scoppio della bolla”, ossia una fuga improvvisa e massiccia dai titoli di Stato.
Su questo giudizio, o meglio su questi timori a cui nei giorni scorsi ha dato voce l’Economist, pesa moltissimo la situazione politica dell’Italia, ossia la percezione che sia tornata la palude, che si siano fermate le riforme per la crescita avviate dal governo Renzi e che il prossimo Parlamento sia bloccato o veda una maggioranza di partiti populisti.
In questo quadro, è assolutamente decisiva la capacità della politica e in particolare del Partito democratico di rilanciare nel Paese una agenda per la crescita.
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