Caro Reichlin,
concordo con quanto hai scritto il 27 giugno su l’Unità: la crisi italiana è arrivata al rischio di esiti catastrofici. Condivido che bisogna partire dai più deboli e dal lavoro, come luogo della relazione e luogo dell’autonomia. Lo condivido per scelta di valore e perché altrimenti il sistema politico e sociale non regge.
La sfida è quella di coniugare questa esigenza con i vincoli che ci derivano dalle condizioni dell’economia. Penso in sostanza che dobbiamo replicare, con maggiore intensità e in un contesto infinitamente più complesso, ciò che facemmo con Ciampi negli anni novanta, sul fronte della finanza pubblica, ma anche su quelli della produttività e dell’inflazione. Per titoli:
- Sulla finanza pubblica siamo costretti ad attenerci rigorosamente alla regola del pareggio di bilancio, la quale, nei numeri, equivale all’avanzo primario del 5-6 per cento che avevamo ereditato dalla gestione Ciampi dei conti pubblici. Non vedo altro modo, specie in un contesto di bassa crescita, per rendere sostenibile il nostro debito. Questo vincolo può essere solo marginalmente attenuato da massicce dismissioni di asset pubblici, che pure dobbiamo fare. Illustri economisti pensano che non ce la faremo, che il vincolo è troppo stringente. E quindi elaborano piani B di finanza straordinaria, che però mi paiono più o meno tutti rimedi peggiori del male che si vuole curare. Peggiori, specie per i ceti più deboli che hanno in Italia la loro unica fonte di reddito e che in Italia detengono tutti i loro risparmi.
- Sul tema competitività, la via maestra è quella di proseguire nella direzione di riforme che consentano di far fare un balzo alla produttività del sistema, a cominciare dal settore dei servizi e dalla PA, nonché di eliminare inefficienze nella spesa pubblica e contrastare l’evasione per ridurre la pressione fiscale. Nei giorni scorsi Yoram Gutgeld ha presentato alcuni utili spunti, che a me sembrano un’evoluzione di ciò che cercò di fare il governo Prodi con Padoa-Schioppa e Bersani.
- Ma è anche improbabile, come dice Michele Salvati, che le riforme dal lato dell’offerta, per quanto ben concepite, possano trasformare la società italiana in gazzella. Come faremo dunque a recuperare quei venti-trenta punti di competitività perduta dall’avvio dell’euro che pesano come un macigno sulle prospettive di crescita dell’economia? Qui occorre una discussione molto seria, di cui vedo poche tracce. Molti economisti ritengono che l’aggiustamento di prezzi e salari avverrà spontaneamente ma molto lentamente, a seguito di un altro decennio segnato da stagnazione dell’economia, alta disoccupazione, disarticolazione dei sindacati, smantellamento dei diritti. Questa mi sembra una prospettiva verosimile, che peraltro è ampiamente già in corso, ma da incubo. Mi chiedo quindi se non si possa mettere in campo un atto di volontà forte, un po’ come fece Ciampi nel 1993. Dopotutto, le parti sociali esistono ancora! Forse con esse possiamo negoziare, come propone Marcello Messori, obiettivi di produttività cui legare la dinamica contrattuale, oppure una nuova politica dei redditi, di tutti i redditi, che dovrebbe proporsi un obiettivo di “inflazione zero”, con la finalità di recuperare uno o due punti di competitività ogni anno ed evitare una stagnazione economica infinita e insostenibile.
Va da sé che l’aggiustamento dell’Italia sarebbe più facile se in Europa prevalessero orientamenti meno austeri oppure se la BCE fosse disposta ad assecondare un po’ di inflazione. Ma non ci conterei troppo perché, in assenza di unione politica, i politici dei paesi ‘core’ devono rispondere solo ai loro elettori e non anche ai nostri.
Per affrontare le sfide, abbiamo bisogno di riforme istituzionali che ci diano governi più stabili e, come tu dici, di una classe dirigente che sappia stabilire priorità e obiettivi. Il punto di partenza del Paese non è incoraggiante, dopo anni dominati da un centro- destra sconclusionato, pasticcione e persino pericoloso – come quando, ad esempio, non esita a mettere a rischio il governo Letta, che è chiaramente l’unico possibile – e dopo il rovinoso fallimento politico di Monti e il successo di Grillo. La mia speranza è affidata al Partito Democratico, che vedo come una risorsa essenziale, un contenitore di donne e uomini onesti che sentono di avere una responsabilità vera verso la collettività. Con un rinnovato Partito Democratico, possiamo uscire da questa crisi infinita. Ci occorrono energia e fibra morale straordinarie, una grande voglia di cambiare, una sconfinata ambizione.
Giampaolo Galli