Con qualche sorpresa, mi sono reso conto che anche persone di buona cultura generale non sanno bene cosa sia lo “spread”, un oggetto di cui si è purtroppo ricominciato a parlare in questi giorni. Proviamo allora a darne una spiegazione semplice.
Cos’è lo spread? Se si guarda su Wikipedia si trovano tanti significati possibili, anche perché spread in inglese ha tanti significati: quello che a noi interessa è il significato di scarto o differenza. In particolare ci interessa la differenza, o spread, fra il rendimento dei titoli di Stato italiani (o di altri paesi) e quello degli analoghi titoli tedeschi. Questi ultimi sono spesso presi a riferimento perché sono i più bassi d’Europa e anche fra i più bassi del mondo. Se un titolo italiano, diciamo un BTP a 10 anni, rende il 2% e l’analogo titolo tedesco, ossia il Bund a 10 anni, rende lo 0,5% diciamo che lo spread è pari a 2%-0,5%= 1,5%.
In gergo, si dice che lo spread è 150 punti base, che equivale a 1,5%. Ogni centesimo di punto percentuale equivale a un punto base, per cui se diciamo che lo spread è aumentato di 10 punti base da 150 a 160 intendiamo dire che il rendimento del titolo italiano eccede quello dell’analogo titolo tedesco non più di 1,5%, ma di 1,6%. Questa variazione può essere avvenuta perché è sceso, poniamo da 0,5% a 0,4%, il rendimento del titolo tedesco oppure perché è aumentato il rendimento del titolo italiano da 2% a 2,1%. In ogni caso la differenza è 1,6%.
Perché i titoli italiani hanno un rendimento più alto dei titoli tedeschi? La ragione è semplice: perché il mercato li considera più rischiosi. I titoli tedeschi sono considerati praticamente privi di rischio nel senso che si è sostanzialmente certi che lo Stato tedesco farà fronte alle proprie obbligazioni, ossia al pagamento di cedole e capitale, in modo puntuale. Per i titoli italiani, come di tanti altri paesi, non vi è questa certezza e quindi chi acquista pretende un premio per il rischio, ossia lo spread. In altre parole, la gente (risparmiatori italiani o esteri, persone fisiche o investitori professionali che siano) chiede un rendimento più alto a compensazione del maggior rischio che si assume.
Perché lo spread ci deve preoccupare? Ci sono due ragioni. La prima è che quanto più alto è lo spread tanto più alto sarà il costo del finanziamento per il Tesoro italiano. Il che significa che alla fine i contribuenti saranno chiamati a pagare il conto.
Facciamo un semplice conto sul retro di una busta. Il debito pubblico italiano è circa il 130% del Pil (il Pil è la ricchezza prodotta in un anno in Italia). Supponiamo che il costo del finanziamento aumenti, per via dello spread, di un punto percentuale, ossia di 100 punti base, ad esempio da 2% a 3%.
Ora facciamo una moltiplicazione: maggior tasso di interesse per debito/Pil, ossia 1%X130% = 1,3%. Questo ci dice che se il tasso d’interesse aumenta dell’1%, alla lunga gli interessi sul debito pubblico aumenteranno di 1,3% del PIL, che corrisponde a circa 22 miliardi. Questi 22 miliardi sono un costo per lo Stato che prima o poi dovrà essere coperto con nuove tasse o tagli di spesa.
Se lo spread aumenta non di 100, ma di 500 punti base, come accadde nel 2011, alla lunga il costo aggiuntivo per lo Stato è di 110 miliardi, un vero e proprio salasso. Abbiamo detto che ciò succede “alla lunga” perché l’aumento dello spread non fa aumentare il costo del finanziamento dello Stato immediatamente: i titoli in circolazione infatti scadono un po’ alla volta e, oggi in Italia, hanno una scadenza media di circa sette anni. Dunque, l’aumento di costo si realizza gradualmente man mano che lo Stato di deve indebitare per finanziare nuovo disavanzo o per rinnovare i vecchi titoli vengono a scadenza.
Rimane il fatto centrale: più spread vuol dire più tasse. Chi dice, spavaldamente, che non ha paura dello spread, sta dicendo che non ha paura di imporre più tasse agli italiani. Aggiungiamo che queste maggiori tasse non finanzierebbero opere meritevoli, come aiutare i bisognosi o mettere in sicurezza gli edifici scolastici, ma sarebbero sostanzialmente uno spreco perché servirebbero semplicemente a compensare i risparmiatori del rischio che si assumono per via della scarsa affidabilità dello Stato, vera o percepita che sia; un’assurdità davvero.
La seconda ragione per cui dobbiamo preoccuparci dello spread è che un suo aumento può segnalare che lo Stato sta per perdere l’accesso al mercato. In altre parole, quando i risparmiatori perdono la fiducia nello Stato ciò si traduce inizialmente in maggiore spread, ma può poi sfociare nel rifiuto di comprare i titoli perché sono considerati troppo rischiosi. Questo è successo durante la cosiddetta crisi dei debiti sovrani in vari paesi europei (Grecia, Irlanda, Portogallo) e stava per succedere in Italia, nel novembre del 2011.
La perdita di accesso al mercato è un evento catastrofico per lo Stato, perché significa che esso non ha più mezzi finanziari per far fronte alle proprie obbligazioni: pagare le pensioni, pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici, pagare i fornitori e cosi via. In questi casi, per evitare il caos, il governo è costretto ad andare con il cappello in mano a chiedere credito ad altri Stati o a enti sovranazionali come il Fondo Monetario Internazionale.
Si può evitare il caos stampando moneta? La risposta è che il ricorso alla banca centrale può tutt’al più ritardare il momento in cui un paese è costretto a fare la questua, perché prima o poi l’eccessiva creazione di moneta crea inflazione e perdita di fiducia nella stessa banca centrale. Sicché, lo Stato finisce per essere costretto ad emettere titoli denominati in valuta pregiata, di solito dollari, e questi non possono certo essere creati dalla propria banca centrale. Va detto inoltre che l’inflazione non è nient’altro che una tassa che lo stato preleva dalle tasche dei cittadini che detengono moneta o depositi bancari. Quindi, chi dice che la soluzione è una banca centrale nazionale, il che per noi significherebbe uscire dall’euro, sta in realtà invocando più tasse. Ed è forse appena il caso di ricordare che l’inflazione è una tassa fra le più ingiuste: i ricchi portano i soldi all’estero e riescono quasi sempre ad eludere la tassa.
In conclusione, anche in questo caso, chi dice che non ha paura dello spread sta dicendo che non ha paura di tassare gli italiani.