Prima o poi, una nuova ristrutturazione del debito greco – o quantomeno un riscadenzamento- sarà inevitabile. E’ però necessario che la Grecia dimostri concretamente di voler fare riforme per la crescita e per la riduzione del debito, il contrario di ciò che il governo Tsipras ha fatto sino ad oggi.
E’ anche necessario che vengano meno alcune ambiguità che condizionano la capacità di manovra dei governi europei.
- Va chiarito che la Grecia ha ricevuto aiuti ingenti, che non hanno precedenti nella storia dei paesi OCSE. Da quasi cinque anni, l’intero deficit della Grecia, inclusi gli interessi, e il rinnovo del debito in scadenza sono a carico dei paesi creditori, ossia dei contribuenti, presenti o futuri, di questi paesi. I prestiti del Fondo salva stati alla Grecia scadono quasi tutti dopo il 2040 e hanno un tasso medio del 1,5%. Dal 2010, quando emerse la realtà dei conti pubblici, per qualunque operatore privato – banca, fondo, risparmiatore individuale – è divenuto troppo rischioso detenere titoli greci. Da allora i prestiti ufficiali hanno consentito di evitare una catastrofe: senza questi prestiti la Grecia non sarebbe stata in grado di pagare stipendi, pensioni, importazioni di energia e altri beni di prima necessità.
- E’ vero che se si fosse fatto un default totale nel 2010, anziché un hair cut al 50% nel 2012 il debito greco sarebbe oggi inferiore. Ed è vero che in quel caso i privati, banche estere incluse, avrebbero pagato un conto molto salato, ma il default era un’ipotesi che le autorità greche di allora non presero neanche in considerazione. L’imposizione di un default dall’esterno sarebbe stata un’ingerenza inaccettabile negli affari interni di un paese. Il default nel 2010, che ex-post piace tanto a Syriza e ad altri predicatori di disgrazie con i soldi altrui, si scontrava anche con l’opposizione della BCE e delle cancellerie di mezzo mondo. Nelle condizioni di allora avrebbe messo a rischio l’esistenza stessa dell’Unione Monetaria e la fragile economia mondiale che si stava a stento riprendendo dalla bancarotta di Lehman. Le banche estere esposte con la Grecia non sono fallite, ma hanno perso molti soldi per via del salto dello spread avvenuto nei primi mesi del 2010 e della ristrutturazione del 2012.
- Dal 2012, i mercati finanziari, le banche e quant’altri soggetti attirano gli strali dei complottisti nostrani sono del tutto fuori gioco. Non c’entrano più nulla. Come non c’entra nulla il liberismo. C’entra un’altra cosa, ben più solida e testarda delle banche: gli interessi dei contribuenti. Ogni euro di austerità in meno per la Grecia è un euro di austerità in più per i contribuenti, presenti o futuri, degli altri paesi.
- Non è vero che negli Stati Uniti, dove c’è un vero Stato federale che da noi manca, le regole siano più favorevoli ai debitori. Nel default del Portorico la Fed non interviene per comprare bonds e Obama dichiara che nessun aiuto verrà dal governo federale. Le regole sono le regole. Ed è essenziale che siano rispettate da tutti, altrimenti un assetto federale non regge.
- La democrazia non c’è solo in Grecia. I greci hanno il diritto di eleggere un governo che promette di combattere l’austerity con i soldi nostri. Ma noi abbiamo l’uguale diritto di dire di no o di sì, in funzione dei nostri interessi nazionali e delle preferenze dei nostri elettori. L’idea che qui sia in gioco la democrazia contro i diktat di una qualche entità astratta chiamata Europa è un falso ideologico che avvelena i rapporti fra gli Stati e fra i popoli. Così come è falso che le democrazie europee siano ossequienti ai voleri della Germania, quasi che vi fossero eserciti che ci minacciano.
C’è un’altra ambiguità di fondo che non aiuta le decisioni. In Italia tanti urlano contro l’UE e l’austerità imposta alla Grecia. Forse hanno qualche buona ragione. Ma se si facesse un referendum, quanti sarebbero disposti a votare a favore di nuovi, costosi aiuti alla Grecia? Forse scopriremmo che le posizioni di Schäuble e Merkel sono meno impopolari di quanto non appaia dagli schiamazzi dei talk show.
Testo originale qui Articolo su Il Foglio 3 luglio 2015