“Grazie Presidente, io vorrei ricordare come questo articolo risponda ad un appello accorato, direi preoccupato, delle autorità di vigilanza sulla base anche di raccomandazioni che sono già state ricordate del Fondo monetario e della Commissione europea. Il problema nasce da lontano, è da anni che se ne discute ma accelera nel 2013 quando non vengono soddisfatti i requisiti di capitale stabiliti a livello europeo e quindi si stava profilando il rischio che al problema del debito pubblico in Italia si sovrapponesse anche un problema di sostenibilità della situazione delle banche.
Si è rimediato nel corso del 2014 con grande fatica perché raccogliere capitali per queste banche è molto difficile, perché chi ci mette i soldi a quei soldi sa che non corrisponde un diritto di voto. Vorrei dire solo questo, che noi ragioniamo ancora in uno schema antico che è precedente alla direttiva europea sulla risoluzione delle crisi bancarie, il cosiddetto bail-in. Si può essere d’accordo o non d’accordo ma quella direttiva e gli orientamenti che stanno prevalendo in tutto il mondo dicono che non solo non si salvano i banchieri – il che è giusto – ma non si salvano più le banche, si salvano solo i piccoli depositanti e per questo le banche devono avere un’elevata capitalizzazione. Io personalmente ho qualche perplessità su questa lettura che risponde però a un movimento di opinione molto diffuso che ha trovato il suo apice nel cosiddetto movimento Occupy Wall Street in base al quale si deve salvare main street, cioè meno ristrette c’è il piccolo depositante, le persone, e non Wall Street, cioè le banche. Allora il rischio derivante da un’insufficienza di capitale o da un eccesso di indebitamento di leverage di una banca è un rischio che diventa sistemico e gravissimo. Credo che a questo rischio e a questo appello che ci viene rivolto dalle autorità di vigilanza noi non possiamo rimanere indifferenti, dobbiamo dare una risposta urgente.”
Leggi tutto “Giampaolo Galli: intervento in Aula sulla riforma delle banche popolari – 10/3/2015”
Ritengo che non abbia fondamento la critica secondo cui staremmo sprecando tempo e capitale politico occupandoci di riforme costituzionali ed elettorali, invece di dedicarci “all’unica cosa che interessa la gente” e cioè la crisi economica.
Innanzitutto è difficile, almeno per me, immaginare cosa di più si potesse fare contro la crisi: il bonus di 80 euro, l’azzeramento dell’Irap lavoro, l’azzeramento dei contributi per i neoassunti nel 2015, la riforma dell’articolo 18 sono i principali provvedimenti realizzati. Sono quanto di meglio gli economisti e gli stessi imprenditori potessero immaginare, almeno dati i vincoli dettati dal combinato disposto di un alto debito pubblico e delle regole europee. A questi provvedimenti vanno aggiunte le riforme strutturali in itinere – più complesse, ma non meno importanti – su fisco, scuola, PA, giustizia.
Il secondo, fondamentale motivo che mi induce a ritenere infondata questa critica è che le istituzioni politiche sono decisive per la crescita. Ne sono consapevoli gli studiosi, le forze sociali, gli imprenditori, i mercati. C’è una sterminata letteratura economica su questo punto. Testi con titoli come “Institutions as a fundamental cause of long-run growth”, oppure: “Why nations fail?” sono ormai letture diffuse nei corsi base di economia. Le istituzioni interagiscono con la cultura e con la religione, ma non sono la stessa cosa; fortunatamente, le istituzioni sono molto meno difficili da modificare, attraverso scelte collettive consapevoli.
Fino ad oggi l’Italia è stata classificata fra le democrazie non decidenti. Una democrazia che non decide non scioglie i nodi, ossia non fissa delle regole che siano al tempo stesso uguali per tutti e capaci di adattarsi tempestivamente alle esigenze mutevoli della società.
E quando questo succede, le persone e le imprese trovano il modo di sciogliere i nodi da sé, arrangiandosi, servendosi dei propri sistemi di relazioni o favori.
Questo costituisce il tema centrale, dal punto di vista della crescita.
Se le istituzioni non decidono, il privato si arrangia e il mercato non funziona.
Questo è il terreno di coltura di favoritismi, capitalismo di relazione, lobbismo deteriore, corruzione. Da qui la svalutazione del merito, il proliferare di piccole e grandi autocrazie locali, nella burocrazia e nella politica, nell’intreccio fra queste e l’imprenditoria.
Tutto questo è il contrario di quei quattro concetti che sono al centro di qualunque analisi del buon funzionamento dei sistemi economici nonché dei Trattati dell’Unione Europea: diritti di proprietà, per definizione uguali per tutti, livellamento del campo di gioco, concorrenza e merito.
Un esempio che tutti conoscono. Dai noi spesso le amministrazioni non riescono a fare una seria pianificazione del territorio e a far funzionare un’organizzazione per il tempestivo rilascio delle autorizzazioni e per i controlli che sia coerente con quella pianificazione. Il risultato è che le persone si arrangiano con piccoli favori, con piccola e grande corruzione.
Gli italiani non sono intrinsecamente più corrotti di altri popoli. Hanno un’amministrazione che funziona peggio che altrove. E funziona peggio perché le istituzioni politiche sembrano fatte apposta per non decidere.
Abbiamo una legge elettorale che obbliga a fare coalizioni, spesso complesse e litigiose. I governi hanno orizzonti temporali brevissimi. In queste condizioni, manca un centro di responsabilità, qualcuno cui l’opinione pubblica possa attribuire meriti e colpe su un orizzonte temporale che non sia quello della settimana o del mese. Con gli orizzonti brevi e la litigiosità della nostra politica non si riuscirebbe ad amministrare neanche un condominio.
Certo, sappiamo tutti che ci sono paesi, come la Germania, in cui le cose funzionano anche con leggi elettorali che sono sostanzialmente proporzionali. In Germania c’è grande stabilità – basti pensare che dal 1949 a oggi vi sono stati solo otto cancellieri, meno dei Presidenti degli Stati Uniti – e si fanno coalizioni che non litigano. Ma con tutta evidenza le cose non vanno così da noi. Quindi dobbiamo porvi rimedio ricorrendo a un’accorta ingegneria istituzionale.
Una seconda evidente causa di inefficienza è il bicameralismo perfetto. Il problema non è tanto il tempo necessario per approvare una legge, ma soprattutto le molte coalizioni di blocco che si possono formare in ogni commissione e in aula durante l’esame dei provvedimenti, coalizioni che sono spesso diverse fra Camera e Senato. Qualcosa di simile accade anche al Congresso americano, come testimoniano, ad esempio, il blocco della riforma sanitaria di Clinton o lo shutdown degli uffici federali nell’autunno 2013. Anche lì dunque a volte le cose sono molto complesse, ma la differenza è che lì il Presidente trae legittimazione dal voto popolare e non dallo stesso Parlamento. E’ dunque evidente che il bicameralismo perfetto, nell’ambito di un sistema parlamentare puro, è un fattore di inefficienza e scoraggia l’assunzione di decisioni.
Un ragionamento analogo si applica al tema della riforma del Titolo V. Anche in questo caso il problema è che dobbiamo ristabilire dei precisi centri di responsabilità. Altrimenti il privato è costretto ad arrangiarsi nelle pieghe della confusione fra livelli di governo.
Una rapida approvazione del pacchetto di riforme istituzionali è dunque essenziale per sostenere l’economia.
Lo è nel lungo periodo. Ma lo è anche nell’immediato, perché i mercati scontano ad oggi gli effetti delle riforme sulla crescita futura e sulla sostenibilità del debito. Le riforme ci aiutano dunque a immunizzarci dai formidabili rischi macroeconomici che girano per il mondo e che sembrano nuovamente generare reazioni di paura se non di vero e proprio panico nei mercati: dall’Ucraina, alla minaccia del terrorismo, al tapering della Fed, al conflitto fra i paesi del nord e la Grecia. Guardate i bollettini delle banche d’investimento internazionali: seguono con estrema attenzione a quello che noi stiamo facendo in materia di riforme istituzionali.
Tutti noi chiediamo all’Europa di fare di più per la crescita, tramite politiche monetarie e di bilancio espansive, e di farlo rapidamente. Lo chiediamo con grande forza nella convinzione che altrimenti è a rischio l’Euro e l’intero progetto europeo.
Condivido queste richieste e queste preoccupazioni. Ma aggiungo che ciò che possiamo fare noi nelle prossime settimane, approvando le riforme della Costituzione e della legge elettorale, non è meno importante per la crescita di ciò che possono fare Juncker e Draghi in Europa.
Testo estratto dall’intervento di Giampaolo Galli all’assemblea del gruppo PD alla Camera – 7 gennaio 2015
Un lungo confronto fra Giampaolo Galli e Tito Boeri su la legge di stabilità 2015 su “Bianco e nero”, condotto da Giancarlo loquenzi.
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