Lo ha spiegato bene Mario Sensini sul Corriere della Sera, sulla base del documento del MEF. Le coperture proposte dal Pdl non stanno in piedi. Non varrebbe neanche la pena di parlarne, dato che è a tutti evidente che Berlusconi ha fatto saltare il banco o ha minacciato di farlo per i suoi problemi personali. Ma la spiegazione ufficiale è che il Pdl non poteva continuare a sostenere un governo che aumenta le tasse. E così Enrico Letta, Fabrizio Saccomanni e il Partito Democratico si trovano sul banco degli imputati come quelli che vogliono aumentare le tasse. Un’idea strampalata dato che nessuno è masochista e chiunque si rende ben conto che le tasse sono la cosa più impopolare che esista in Italia oggi. Vediamo dunque come stanno i conti e quali coperture proponeva il Pdl.
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Brevi commenti
La situazione dei conti pubblici nel 2013: le valutazioni del MEF
Ecco perché non c’erano le coperture.
“Alle imprese servono semplificazioni, non nuova Iri” – Giampaolo Galli su Linkiesta – 26/08/2013
Non nuovi strumenti finanziari, ma semplificazioni burocratiche e fiscali. Di questo ha bisogno il mondo dell’impresa e dell’industria. Ne è convinto Giampaolo Galli, deputato Pd ed ex direttore generale di Confindustria. Commentando l’articolo di Fulvio Coltorti, ex direttore dell’Ufficio Studi di Mediobanca, sulla progressiva finanziarizzazione dell’industria, l’economista spiega: «Il fatto che le industrie abbiano una rilevante parte dell’attivo investita in strumenti finanziari può essere un modo per svincolarsi dalle banche per essere più solide sia dal punto di vista patrimoniale che della liquidità».
Crisi e crescita: l’importanza di non abbandonare l’austerity – il commento di Giampaolo Galli su l’Unità 15/06/2013
Le critiche agli eccessi di austerità in Europa non debbono far dimenticare che per l’Italia non c’è alternativa ad una rigorosa politica di disciplina finanziaria; né che la bassa crescita è un problema che ci trasciniamo da almeno quindici anni e la cui soluzione dipende principalmente da ciò che noi italiani sappiamo o non sappiamo fare.
Rimane di assoluta attualità l’insegnamento di Carlo Azeglio Ciampi che, da Ministro del Tesoro ai tempi in cui fummo ammessi nella Moneta Unica, impegnò l’Italia a realizzare consistenti avanzi primari, per un periodo di tempo prolungato. Non v’era, e non v’è, altro modo per piegare la dinamica del debito pubblico. Oggi siamo in una grave recessione. In astratto, ossia se non avessimo un alto debito e una bassa credibilità, sarebbe logico ridurre le tasse, andando oltre i parametri europei, assumendo nel contempo l’impegno a riportare il bilancio in pareggio negli anni successivi. Ma con tutta evidenza non ve ne sono le condizioni.
Abbiamo invece due ragioni in più per riprendere l’impegno di Ciampi o, meglio, quello del pareggio di bilancio, che nei numeri è ad esso sostanzialmente equivalente. La prima è che quell’impegno non è stato mantenuto, sicché oggi il nostro debito è tornato ai massimi degli anni novanta. La seconda è che oggi è del tutto evidente che la nostra economia non riprenderà a crescere se non sarà ripristinata in toto la fiducia dei mercati e dei risparmiatori nel debito sovrano. La mancanza di fiducia, di cui lo spread è un imperfetto e volatile termometro, pesa sull’onere del debito, sottraendo risorse ad utilizzi più efficienti, prosciuga il credito bancario, scoraggia gli investimenti e i consumi. Il ripristino della fiducia nel debito sovrano è la misura più efficace per uscire dalla crisi dell’economia reale, anche se da solo ovviamente non basta. Fa bene dunque il Ministro Saccomanni ad attenersi al mandato ricevuto dal Governo nel discorso della fiducia: riduzione della pressione fiscale, che è assolutamente necessaria, ma senza nuovo indebitamento.
E’ anche giusto chiedere, come sta facendo il governo Letta in accordo con Hollande, che l’Europa faccia molto di più per la crescita. Questa richiesta può essere efficace solo se riusciamo a fugare i timori degli elettori tedeschi e dei mercati sulla sostenibilità del nostro debito pubblico. In Germania gli elettori si preoccupano più del rischio di nuove tasse per far fronte ai guai dei paesi periferici dell’euro che della disoccupazione che è ai minimi storici. I tedeschi hanno fatto notevoli sacrifici negli anni scorsi per mettere i conti in ordine e uscire dalla condizione, che condividevano con l’Italia, di malato d’Europa sotto il profilo della crescita. Non capiscono per quale motivo oggi dovrebbero disperdere i sacrifici fatti, tanto più che anche in Germania, per via della crisi finanziaria globale, il debito è fortemente aumentato. Certo, come sostiene l’Economist di questa settimana, la Germania potrebbe assumere un ruolo di leadership in Europa e farsi carico dei problemi dell’intera area, in modo da far sì che in aggregato la politica di bilancio dell’eurozona sia meno dissimile da quella degli Stati Uniti oppure da quella che verosimilmente prevarrebbe in una ipotetica Europa federale. Ma, a parte la riluttanza politica della Germania post bellica ad assumere ruoli di leadership, questo richiede che gli altri paesi accettino tale ruolo e si comportino di conseguenza.
Le polemiche contro la Germania e la “cieca austerità” che essa imporrebbe all’Europa sono dunque poco utili. Distraggono l’attenzione dalle cose che dobbiamo fare a casa nostra per darci, ad esempio, una burocrazia, una giustizia e delle infrastrutture meno indecenti. Rischiano di essere molto controproducenti in una condizione nella quale i mercati non sono affatto tranquilli sulle prospettive del debito pubblico italiano. Dopo le forti prese di posizione di Draghi riguardo all’impegno della Bce a difendere l’Euro, dall’estate scorsa gli investitori sono tornati sui titoli di Stato italiani, ma per lo più in un ottica “mordi e fuggi”, pronti a scappare nel caso di pericolo. E i pericoli purtroppo non mancano. Possono venire ad esempio, da una sentenza sfavorevole della Corte costituzionale tedesca sulla legittimità dell’operato della BCE oppure dall’avvio da parte della Fed di una politica di riassorbimento dell’eccesso di liquidità in dollari. Stando alle proiezioni di quasi tutti i centri di ricerca, nel 2013 l’Italia avrà un disavanzo superiore al 3%. Qualora ciò si verificasse il problema sarà quello di gestire il rientro nella procedura d’infrazione dalla quale siamo appena usciti, in un contesto di mercato sicuramente meno favorevole di quello attuale.
E’ peraltro evidente che se si realizza uno scenario sfavorevole, la gestione dell’emergenza finirebbe per essere molto più difficile e dolorosa in un quadro segnato da tensioni politiche fra paesi europei, in particolare con la Germania. Le stesse tensioni politiche possono costituire la miccia che innesca una crisi, come spesso è successo in passato. Sotto questo profilo non possono che preoccupare i richiami ormai quasi quotidiani e sempre più severi delle autorità europee e tedesche alla disciplina di bilancio. Dobbiamo assolutamente prevenirli e l’unico modo per farlo è di approvare in toto, senza riserve mentali e artifici verbali, il programma di stabilità che l’Italia ha già sottoposto all’Unione Europea. Occorre un impegno serio e credibile di tutto il Parlamento. E occorrono comportamenti conseguenti. Si deve porre fine alla solitudine del Ministro dell’Economia che è un vizio antico della politica italiana e, a mio avviso, la cartina di tornasole della sua storica inadeguatezza. Solo così avremo qualche chance di riuscire a spostare l’asse delle politiche economiche in Europa.
Giampaolo Galli
Il Prof Brunetta e le teorie del baratro
Il professor Brunetta torna a dirci che nel novembre 2011 non eravamo affatto sul orlo del baratro e che il baratro vero, quello dell’economia reale, è stato causato dalle politiche di Monti. Non entro nel merito dei fatti e dei giudizi. Quello che non capisco è come faccia a dire che il risanamento dei conti pubblici, quello che ci consente oggi di uscire dalla procedura di infrazione, è merito del governo Berlusconi che avrebbe fatto manovre da ottanta miliardi. Ne sembra tanto convinto che nella risoluzione sul DEF ci ha indotto a scrivere che i conti pubblici sono stati messi in sicurezza dai precedenti governi, al plurale (ossia Monti e Berlusconi). Se Monti ha creato il baratro con una manovra da venti miliardi, com’è che le manovre fatte in precedenza per ben ottanta miliardi non avrebbero avuto alcun effetto recessivo. I casi sono due. O gli ottanta miliardi erano scritti sull’acqua a futura memoria – insomma fumo negli occhi dei mercati che infatti non ci hanno creduto – oppure al governo di cui lui era ministro vanno attribuiti circa quattro quinti della recessione nella quale siamo caduti.
Il punto è che il Prof Brunetta non può al tempo stesso attribuirsi il merito di aver risanato i conti e addossare ad altri la responsabilità della recessione.
Né può parlare a cuor leggero di “politiche economiche sbagliate implementate con la pistola alla tempia dello spread e dell’Europa a trazione tedesca”, dato che fu proprio lui a dire che la lettera della BCE dell’agosto 2011 altro non era se non una esplicitazione del vero progetto liberale di sempre del suo partito, anticipo del pareggio di bilancio al 2013 compreso. E’ ancora vero? Il pareggio nel 2013 fa ancora parte del vero progetto liberale?
Oggi, caro Brunetta, siamo nella stessa maggioranza e abbiamo le stesse responsabilità verso il Paese. La condizione per lavorare insieme proficuamente, come dobbiamo fare, è di ragionare pacatamente rispettandoci a vicenda. Io rispetto sinceramente la tua intelligenza prorompente. Buon lavoro, Presidente.