La tregua con l’UE e i problemi rimandati al 2020, di Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli, Il Sole24Ore, 28 giugno 2019

Dai segnali che provengono dalla
Commissione si può ritenere
possibile che, almeno per qualche
mese, l’Italia riesca a evitare la
procedura d’infrazione. Un
compromesso sul passato e una
sospensione del giudizio sul futuro,
sino all’autunno prossimo, sembra
possibile in virtù di considerazioni sia
tecniche che politiche. Se così fosse
sarebbe certamente una buona
notizia, ma non si può non
sottolineare come i conti pubblici
rimarrebbero fortemente squilibrati e
continuerebbero a essere fonte di
fragilità per l’Italia.
Il rinvio all’autunno sembra
possibile innanzitutto per motivi
politici. L’Europa è ancora alle prese
con il grande problema della Brexit e
probabilmente i leaders europei
preferiscono affrontare un problema
alla volta. Inoltre è in corso il
negoziato per le nomine al vertice
delle istituzioni europee; in questo
negoziato, l’Italia ha poche chances e
proprio per questo può far pesare il
suo supporto ai candidati di altri paesi
per ottenere una ‘minoranza di
blocco’ ed evitare la procedura.
Un rinvio è anche possibile per
motivi tecnici. Secondo il ministro
Tria infatti il deficit 2019 non sarà al
2,5% del Pil, come nelle ultime
previsioni della Commissione, ma al
2,1%. Tuttavia, il vero buco nero dei
conti riguarda il 2020 e oltre. E qui
Tria e Conte non hanno una linea di
difesa dal momento che non sanno
come potranno essere trovati i 40 o 45
miliardi che servono. Ma il governo
può ragionevolmente dire alla
Commissione che i conti sul 2020
verranno fatti nella Legge di Bilancio
e quindi chiedere di fatto un rinvio a
ottobre.
Ma qual è il vero stato dei conti
pubblici italiani? È immaginabile che
nel 2020 e negli anni successivi il
debito pubblico possa cominciare a
ridursi rispetto al Pil, o quantomeno a
stabilizzarsi?
Questa è la domanda di fondo che
nessuno può eludere e che tornerà
comunque a perseguitare l’Italia nei
prossimi mesi. Non si tratta
ovviamente di una domanda nuova,
ma oggi assume un significato
particolare alla luce dei rischi dello
scenario internazionale. Gli effetti
della guerra commerciale fra USA e
Cina si stanno rivelando molto più
gravi di quanto non si potesse
immaginare. Inoltre, la fase
espansiva statunitense che è seguita
alla crisi internazionale è una delle
più lunghe che si ricordino e un
rallentamento sembra ormai
probabile. Vi sono poi molti fattori di
rischio specifici e difficilmente
ponderabili, ma molto reali come
quello di un conflitto USA-Iran o di
una recrudescenza delle tensioni nel
Medio Oriente. In queste condizioni,
rischiano di cadere come birilli i
paesi che sono finanziariamente più
fragili, e l’Italia è fra questi.
Nel merito, non è affatto ovvio
che il disavanzo 2019 possa davvero
attestarsi al 2,1%. È vero che le stime
di spesa per Reddito di Cittadinanza
e Quota 100 erano state fatte con un
opportuno margine di prudenza, ma
ci sembra improbabile che si possa
fare affidamento sui risparmi che si
sono manifestati sino ad oggi, dal
momento che le domande sono
ancora aperte. Inoltre, le
informazioni che abbiamo sulle
entrate non sono del tutto positive: va
molto bene l’Iva, ma il totale delle
entrate tributarie cresce solo dell’1%
(primi 4 mesi dell’anno) e le entrate
contributive calano del 2,1% (primi 3
mesi).
Per il 2010, rimane molto elevato
il rischio che nella prossima Legge di
Bilancio per far tornare i conti si
finisca per fare affidamento su una
forte revisione verso l’alto del
disavanzo. Il punto di fondo è che le
due misure chiave del 2019, Reddito
di Cittadinanza e Quota 100, non
sono finanziate. Nel 2019
formalmente sono state coperte con
molti rinvii di spese e anticipi di
imposte, ossia con misure che
rinviano i problemi agli anni
successivi. Nel 2020 e 2021, la
copertura è rappresentata
principalmente dagli aumenti
dell’IVA previsti nelle clausole di
salvaguardia che per il governo e –
ciò che più conta – per il Parlamento
non devono essere messi in atto. A
queste considerazioni si aggiunge il
fatto che si è praticamente persa ogni
traccia di quattro azioni fondamentali
che potrebbero migliorare la
prospettiva dei conti pubblici: la
spending review, la riduzione delle
spese classificate come dannose per
l’ambiente, il disboscamento delle
spese fiscali e le privatizzazioni.
Queste ultime sono iscritte nel
bilancio 2019 per ben 18 miliardi.
Tutto ciò avviene in un contesto
in cui non è chiara la collocazione
internazionale dell’Italia (Conte va in
Cina e Salvini in USA), vari
esponenti della maggioranza
continuano a metter in dubbio
l’appartenenza dell’Italia all’Unione
Monetaria e si approvano
emendamenti, ad esempio sull’ex-
Ilva, che creano sconcerto nel mondo
delle imprese.
In queste condizioni, non c’è da
meravigliarsi se lo spread rimane
elevato, nonostante la recente
riduzione legata agli annunci della
Bce, la crescita rimane stentata e
l’effetto ‘palla di neve’ tende a far
crescere in prospettiva il rapporto fra
debito e Pil, mettendo in discussione
la sua sostenibilità.
@lorenzocodogno
@giampaolog

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IL DIVIDENDO CDP RIDUCE IL DEBITO, di Giampaolo Galli, Inpiù, 24 giugno 2019

Dunque il Tesoro chiede alla Cassa Depositi e Prestiti di deliberare una distribuzione straordinaria di dividendi a valere sugli utili 2018 (2,54 miliardi): 960 milioni, di cui quasi 800 al Tesoro, che si aggiungono ai 1.550 già distribuiti. A prima vista, la cosa un po’ stupisce perché, come si sa, la Commissione non prende in considerazione le operazioni una tantum. Nel lungo processo che ha portato le regole europee ad essere meno “stupide” – e per questo più complicate – di quelle che venivano usate prima della crisi, uno dei passi avanti importanti è stato quello di considerare i deficit strutturali calcolati nettando sia dei fattori ciclici sia delle una tantum.

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IL DETTO E IL NON DETTO DELLA LETTERA DI CONTE A JUNCKER, di Giampaolo Galli, Inpiù, 19 giugno 2019

La lettera di Conte alla Commissione sta diventando un vero e proprio thriller. Salvini è alla ricerca di un incidente, una sorta di incendio del Reichstag, per poter andare a elezioni a settembre trasformandole, per usare le sue parole, “in un referendum fra l’Europa delle élite, delle banche, della finanza, dell’immigrazione e del precariato e l’Europa dei popoli e del lavoro”. Già ha fatto molto in questo senso, facendo asse con la componente più antieuropea dell’amministrazione Trump, mettendo avanti il totem della flat tax come condizione per la prosecuzione del governo e consentendo ai suoi uomini di proporre i mini-bot nonché di usare frasi a dir poco ingiuriose (“mafiosi” e “ricattatori”) nei confronti dei vertici delle istituzioni europee. Conte sarà forse obbligato a dire la sciocchezza che è ora di porre fine al primato della finanza – come se la richiesta di mettere i conti in ordine non venisse dai governi degli altri paesi europei e dunque dalla politica. Sarà forse anche costretto a fare una blanda contestazione delle regole – anche se sa benissimo che non ha senso chiedere di cambiare le regole quando l’arbitro ti fischia un rigore.

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Politica economica e “Sindrome 1933”, di Giampaolo Galli, Inpiù, 14 giugno 2019

“Sindrome 1933” è il titolo di uno straordinario libro di Siegmund Ginzberg. L’autore si guarda bene dal dire che c’è il nazismo alle porte, in Italia o altrove nel mondo. Eppure le analogie sono tante e inquietanti, a cominciare dal disprezzo, nel nome della “volontà del popolo che ha votato”, per la divisione dei poteri che è il pilastro delle democrazie liberali. E sono tante anche le analogie in economia. “Hitler prometteva qualcosa a tutti, fregandosene dell’ortodossia economica, dell’indebitamento e dei rapporti internazionali”. I rapporti internazionali erano particolarmente importanti dal momento che “la Germania era da anni una sorvegliata speciale nei mercati internazionali e nelle sedi di decisioni economiche. Era indebitata sino al collo. Nel 1931 il debito estero aveva superato il 100% del Pil”. “Nel 1929 Hugenberg e Hitler alleati avevano promosso un referendum contro il nuovo Piano Young [proposto dagli Usa] di dilazione nei pagamenti del debito tedesco (in base al principio che non andava più ripagato nulla)”. Per Ginzberg era un’iniziativa comparabile a quel che sarebbe oggi un referendum contro l’euro, anche perché le riparazioni di guerra erano da sempre l’argomento più efficace per dare la colpa di tutto a chi si ostinava a “punire” la Germania. “Esattamente come oggi si dà la colpa di tutto all’Europa e ai burocrati di Bruxelles”.

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