I MOLTI PROBLEMI DELLA WEB TAX ITALIANA, di Giampaolo Galli, Inpiù, 4 febbraio 2020.

Sottoporre a equa tassazione le imprese multinazionali, in particolare quelle che operano nel mondo dei bit, è necessario, ma è tremendamente difficile in assenza di un accordo internazionale. Lo dimostra una volta di più la tassa del 3% sui fatturati di queste imprese che è entrata in vigore all’inizio di quest’anno, sulla scorta del precedente francese, e che ha già indotto Trump ad annunciare ritorsioni commerciali contro i prodotti italiani e francesi. Un primo problema della webtax italiana è che, per come è formulata, colpisce anche i nostri grandi editori perché anch’essi, come Google e Facebook, vendono pubblicità on line, ad esempio sui siti dei grandi giornali e delle TV, e perché fanno parte di gruppi che superano la soglia di fatturato mondiale stabilito dalla norma (750 milioni). Si tratta di uno straordinario paradosso se si pensa che gli editori sono stati i principali fautori della tassa, un paradosso che ha però una spiegazione: esso nasce dal fatto che ormai quasi tutte le imprese, anche quelle old economy,  si stanno digitalizzando e stanno dunque diventando in parte imprese new economy. Il problema dovrebbe essere risolvibile modificando la definizione, già incredibilmente barocca per via delle molte esclusioni, dei soggetti passivi o dell’imponibile, ma con tutta probabilità richiede che si torni in Parlamento dove è quasi certo che emergeranno altri problemi simili a questo.

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Due anni fra i conti pubblici, a cura di Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli

In occasione dei due anni dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, abbiamo realizzato questo volume, edito da Feltrinelli e finanziato da Allianz S.p.A., che raccoglie alcuni dei nostri lavori più significativi. L’obiettivo dell’Osservatorio non è solo quello di condurre analisi rigorose sugli andamenti della finanza pubblica italiana, ma anche quello di divulgare le informazioni sui conti pubblici del nostro Paese rivolgendosi a un pubblico più vasto che non sia solo quello degli “addetti ai lavori”. Il testo del volume è suddiviso in capitoli che trattano di alcuni temi di cruciale importanza per la finanza pubblica: dal rischio di insostenibilità del debito pubblico alle politiche di bilancio adottate da alcuni Paesi come il Portogallo e l’Argentina; dallo spinoso problema delle tasse e dell’evasione fiscale a quello della spesa pubblica e dell’inefficienza della nostra pubblica amministrazione.

Buona lettura,
Carlo Cottarelli e Giampaolo Galli

Qui il link al volume.

Il debito pubblico: perché è un problema e come se ne esce. Video, 30 gennaio 2020.

Ringraziando Radio Radicale, presentiamo il video del seminario sul debito pubblico che si è tenuto il 30 gennaio 2020 in Confindustria, in occasione del lancio della rinnovata Rivista di Politica Economica. Di seguito la mia relazione e le considerazioni di Davide Iacovoni, Antonio Foglia, Lorenzo Bini Smaghi e Vincenzo Boccia.

Per seguire gli interventi, potete aprire le slides in una scheda separata : Giampaolo Galli , Bini Smaghi, Antonio Foglia

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La web tax italiana: più problemi che soluzioni, di Beatrice Bonini e Giampaolo Galli, 25 gennaio 2020, Ocpi.

Il primo gennaio di quest’anno, con l’entrata in vigore della Legge di Bilancio, è stata introdotta in Italia la “digital tax”. Già presente nelle Leggi di Bilancio dei due anni precedenti, ma slittata a causa di ragioni tecniche e nell’attesa di accordi a livello europeo, la digital tax italiana è la seconda nell’Area Euro dopo quella francese. Una tassazione equa sulle grandi imprese del web, quasi tutte americane (e in qualche caso cinesi), è uno degli obiettivi della cosiddetta “Agenda Digitale Europea” che fa parte del programma strategico “Europa 2020”. Anche se l’Agenda si prefigge di trovare una soluzione univoca entro fine 2020, alcuni paesi membri si sono opposti alla “web tax”. In assenza di un accordo internazionale, in sede OCSE o quantomeno in sede europea, una digital tax nazionale presenta numerose controindicazioni per quello che riguarda i possibili effetti sulla competitività delle imprese locali e sulla trasformazione digitale dell’economia. Nel caso dell’Italia, l’imposta presenta ulteriori controindicazioni. Primo, per come è formulata attualmente, verrà probabilmente scaricata sui consumatori. Secondo, colpisce anche alcune grandi imprese editoriali nazionali, il che è certamente contrario alla finalità della norma. Terzo, non è chiaro come possa essere reso compatibile con la normativa sulla privacy l’obbligo che viene imposto alle imprese del web di geolocalizzare gli utenti al fine di sapere se la transazione è avvenuta in Italia. Quarto, il gettito previsto (oltre 700 milioni nel 2020) è probabilmente sovrastimato. Infine, gli Stati Uniti considerano la digital tax come una discriminazione nei confronti delle loro imprese e hanno già annunciato che reagiranno imponendo dazi su prodotti francesi e italiani. Tutto questo non toglie che è necessario trovare una rapida soluzione a livello europeo, probabilmente basata su una formula per la ripartizione dei profitti tra paesi, per evitare che i profitti delle compagnie multinazionali del web finiscano per essere sottotassati. Una soluzione europea consentirebbe anche di negoziare con gli Stati Uniti da posizioni di maggior forza.

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Nella trasformazione digitale siamo molto indietro rispetto agli altri Paesi, di Giampaolo Galli, Inpiù, 14 gennaio 2020.

Dove si potrebbe sperare di trovare qualche buona notizia sull’economia italiana se non in un settore, come quello della trasformazione digitale, che è in gran parte nuovo e sul quale si potrebbe immaginare che il peso dei problemi ereditati dal passato sia minore? Purtroppo anche in questo campo le cose non vanno affatto bene. Lo confermano gli indicatori Desi (Digital Economy and Society Index) dell’Ue, un massiccio referto della Corte dei Conti e una recente ricerca dell’Osservatorio dei Conti Pubblici. L’indice Desi complessivo, che ha decine di sotto-indici ed è costruito sulla base di fatti oggettivi e non di opinioni, ci dice che siamo al 24° posto su 28 paesi dell’Ue. Peggio dell’Italia fanno la Polonia, la Grecia, la Romania e la Bulgaria. Le dimensioni che più ci penalizzano sono le competenze digitali (in cui l’Italia è al 26° posto) e l’utilizzo di Internet (25° posto). Anche nelle altre dimensioni l’Italia non ha una buona posizione: siamo al 23° posto per la digitalizzazione delle imprese (ahinoi, qui piccolo è davvero poco bello!) e al 19° per connettività (ci salva il fatto di avere realizzato le aste per il 5G, ma l’implementazione è ancora lontana). Nella digitalizzazione dei servizi pubblici apparentemente stiamo un po’ meglio (18° posto), ma a ben guardare ciò è dovuto essenzialmente al decreto Madia (cosiddetto Foia) che ha obbligato le amministrazioni a mettere sui propri siti le informazioni sui pagamenti, stipendi inclusi; un’ottima cosa, ma di qui a dire che la nostra Pa è davvero trasparente ce ne passa.

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