L’Italia al top per le procedure d’infrazione europee

di Giampaolo Galli, Giorgio Musso e Francesco Tucci, 12 marzo 2021, Ocpi

L’Italia si colloca oggi al primo posto per numero di casi pendenti o giudicati presso la Corte di Giustizia Europea. L’Ambiente rappresenta per l’Italia l’ambito di inadempimento più frequente. E sempre all’Ambiente si riferiscono tre procedure su sei tra quelle per cui l’Italia è stata sanzionata dalla Corte di Giustizia Europea, tra le quali risultano particolarmente rilevanti quelle relative alla presenza di discariche abusive, di cui molte con rifiuti pericolosi, e al mancato adeguamento delle reti fognarie agli standard europei. Nell’ultimo decennio, le sanzioni sono costate all’Italia 750 milioni di euro, cifra che rappresenta di gran lunga il dato più alto tra i paesi europei.

Una procedura d’infrazione è un procedimento promosso nei confronti di uno Stato membro per mancato recepimento di direttive nell’ordinamento nazionale o per violazione del diritto comunitario.[1] In questi casi l’articolo 258 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) riconosce alla Commissione Europea la possibilità di avviare una procedura che si articola in due fasi.[2]

La prima, detta “precontenziosa”, inizia con l’invio allo Stato membro di una lettera di messa in mora, nella quale la Commissione riporta le cause dell’inadempimento della normativa europea richiedendo al riguardo dei chiarimenti.[3] Se questi non sono ritenuti sufficienti, la Commissione invierà successivamente un parere motivato per formalizzare più dettagliatamente l’accusa e invitare il paese ad adottare tutte le misure necessarie per correggere il proprio comportamento.

Se lo Stato non adempie, la Commissione può portare il caso dinanzi la Corte di Giustizia Europea (di qui in avanti la “Corte”), dando avvio alla seconda fase della procedura (detta “giudiziaria”). La Corte si pronuncerà sul caso emettendo una sentenza dichiarativa che potrà rigettare o confermare l’inadempimento. In quest’ultimo caso lo Stato sarà tenuto a conformarsi alla sentenza e a porre fine all’abuso. Laddove ciò non accada, l’articolo 260 del TFUE dà la possibilità alla Commissione di adire nuovamente la Corte, richiedendo in questo caso che vengano imposte sanzioni in capo allo Stato inadempiente. Le sanzioni possono essere inoltre somministrate dalla Corte già durante il primo giudizio, purché il movente della procedura sia stato il mancato recepimento di una direttiva.[4]

Lo stato delle procedure per l’Italia e il confronto europeo
Le evidenze sulle procedure d’infrazione nei confronti dell’Italia presentano alcuni elementi di preoccupazione. La Figura 1 mostra infatti l’evoluzione nel tempo del numero di procedure attive per l’Italia, confrontandola con la media dell’Unione Europea e con i principali Stati membri.[5] Emerge chiaramente come da fine 2017 il numero di procedure attive si sia assestato per l’Italia su un trend crescente, passando da 62 procedure aperte alla fine del 2017 al dato odierno di 82 (+32 per cento), che colloca l’Italia al settimo posto tra i paesi UE.[6] Tale aumento inverte una tendenza positiva che si era registrata nella prima parte dello scorso decennio. L’Italia, infatti, partendo da una situazione di ampia distanza rispetto agli altri grandi paesi europei, dal 2011 al 2017 aveva sostenuto uno sforzo rilevante di riduzione delle procedure pendenti, raggiungendo quasi la media europea alla fine del 2017.

Inoltre, non solo le procedure a carico dell’Italia hanno continuato ad aumentare a partire dal 2017, ma in un certo senso ne è aumentata anche la “gravità”. Un modo per cogliere questa caratteristica è quello di guardare al numero di procedure attive portate all’attenzione della Corte, ovvero quelle per cui è stato presentato ricorso e quelle per cui è stata emanata una sentenza (e che sono in attesa di adempimento da parte dello Stato). Sotto questo profilo, che è sicuramente il più rilevante, il confronto europeo è impietoso nei confronti dell’Italia (Figura 2). L’Italia guida la classifica con 22 procedimenti davanti a Grecia (20), Spagna (15) e Polonia (13). Francia e Germania occupano invece rispettivamente il 14esimo e il quinto posto di questa graduatoria.

Per capire come siamo arrivati a questo punto, la Figura 3 rappresenta l’evoluzione storica dei casi riguardanti l’Italia rinviati dinanzi alla Corte da parte della Commissione o conclusisi con una sentenza in attesa di adempimento (sia in primo che in secondo grado). Anche da questa figura emerge il calo nel numero di casi nella prima parte dello scorso decennio.[7] In particolare, la riduzione dal 2011 al 2016, punto di minimo della serie storica, è stata del 55 per cento. Tuttavia, a partire dal 2016 l’Italia si è ricollocata su un trend crescente, con un aumento ad oggi del 57 per cento.

Possiamo quindi dire che dal 2017 l’Italia si è collocata su un sentiero di peggioramento in termini sia della quantità che della gravità delle procedure d’infrazione.

Le materie dei casi d’infrazione
La Figura 4 mostra l’evoluzione del numero di infrazioni attive per alcune materie dal 2011 ad oggi.[8] Anche da questi dati emerge la sensibile diminuzione nel periodo 2011-2016 con riferimento a tutte le materie considerate, con percentuali di calo che vanno dal 50 per cento dei Trasporti al 90 per cento per i casi di Lavoro e Affari Sociali, quasi azzerati rispetto all’inizio dello scorso decennio. Per quanto riguarda l’Ambiente, la categoria che detiene di gran lunga il primato rispetto alle procedure aperte, il calo nel periodo 2011-2016 è stato del 60 per cento, con un passaggio da 33 casi pendenti a 13. Al contrario, a partire dalla fine del 2016 la risalita nel numero dei casi fino ad oggi è principalmente ascrivibile a Fiscalità e Dogane (+50 per cento) e Trasporti (+120 per cento), nonché ad altre categorie non rappresentate all’interno del grafico (es. Energia e Affari Interni), mentre per quanto riguarda l’Ambiente i casi sono aumentati del 30 per cento.

Alla luce dell’andamento rappresentato nella Figura 4, la Figura 5 presenta la ripartizione odierna per materia delle procedure d’infrazione pendenti a carico dell’Italia, confrontandola con la composizione relativa delle procedure aperte a livello UE.[9] In generale, le frequenze relative nel nostro paese risultano largamente in linea con quelle europee. Si noti ad esempio come la tematica ambientale sia diffusa non solo a livello italiano, così come i casi nel settore “Trasporti”. Le due categorie principali per le quali il nostro paese presenta invece una frequenza relativa maggiore rispetto al resto dell’UE sono l’area “Concorrenza e Aiuti di Stato” e l’area “Fiscalità e Dogane”.

Le sanzioni somministrate all’Italia e il confronto europeo
Sull’Italia pendono al momento sei sentenze di seconda condanna ai sensi dell’art. 260, di cui la metà relative al settore ambientale e la restante metà al mancato recupero di aiuti di Stato (Tav. 1). Nel dettaglio le sentenze riguardano:

  • il mancato recupero di aiuti di Stato concessi a favore dell’occupazione (sentenza C-496/09).[10] Si tratta di sgravi contributivi riconosciuti a favore di imprese che assumevano disoccupati con contratti di formazione e lavoro. La Commissione ne ha riconosciuto lo status di aiuto e dichiarata l’illegittimità da oltre vent’anni con la Decisione 2000/128/CE. L’Italia però non ha recuperato integralmente gli aiuti dalle imprese che ne avevano beneficiato e la Corte è dovuta intervenire con due sentenze, una di prima condanna nel 2004 e una di seconda condanna nel 2011. Il secondo intervento della Corte è stato motivato dal fatto che, nonostante la prima sentenza avesse imposto il recupero integrale dei circa 280 milioni di aiuti erogati, appena 52 erano stati fino a quel tempo recuperati.
  • il tema delle discariche abusive (sentenza C-196/13).[11] Nel 2007, durante il primo giudizio, la Corte ha constatato come in Italia fossero presenti ben 218 discariche irregolari, ossia prive delle necessarie autorizzazioni per operare in conformità con la disciplina europea sui rifiuti.[12] Al tempo della seconda sentenza, emanata nel 2014, le discariche abusive presenti in Italia erano ancora 198, delle quali 14 contenenti rifiuti pericolosi, spingendo di conseguenza la Corte a sanzionare l’Italia al pagamento di un’ammenda;
  • il settore dei rifiuti nella regione Campania, non in linea con gli standard europei per il recupero e lo smaltimento dei rifiuti (C-653/13).[13] La sentenza di seconda condanna ha infatti accertato nel 2015, a cinque anni dalla prima, il perdurare dell’inadempimento.[14]
  • il mancato recupero di aiuti di Stato concessi a favore di alcune imprese di Venezia e Chioggia (C-367/14).[15] Si tratta di riduzioni e sgravi di oneri sociali che l’Italia ha accordato tra il 1995 e il 1997, e che la Commissione ha riconosciuto come aiuti in una Decisione del 1999, nella quale si richiedeva il loro recupero integrale. L’Italia non ha però dato seguito alla decisione ed è stata condannata dalla Corte in primo grado nel 2011 e in secondo nel 2015;
  • il problema delle acque reflue urbane (C-251/17).[16] Nell’ambito della prima sentenza emanata nel 2012, l’Italia è stata condannata a causa di 109 agglomerati urbani che erano sprovvisti di reti fognarie per la raccolta e il trattamento delle acque reflue conformi alla Direttiva 91/27/CEE. La sentenza di seconda condanna è invece arrivata nel 2018, poiché dei 109 agglomerati da mettere a norma ancora 74 risultavano non conformi alla disciplina europea, nonostante la prima sentenza richiedesse all’Italia di adempiere entro il 2016;
  • l’ultima sentenza, emanata un anno fa, condanna invece l’Italia per non aver recuperato integralmente gli aiuti di Stato concessi a favore di imprese alberghiere della Sardegna, pari a circa 13,7 milioni di euro (C-576/18).[17] Nella seconda sentenza di condanna la Corte ha sottolineato come una quota consistente di aiuti fosse stata effettivamente recuperata rispetto a quanto constatato nell’ambito del primo giudizio; tuttavia, la Corte ha rigettato la tesi avanzata dall’Italia secondo cui la parte di aiuti ancora non riacquistata fosse impossibile da recuperare.

Dal 2012 ad oggi, le sentenze di seconda condanna inflitte all’Italia sono costate più di 750 milioni di euro, di cui 152 versati per sanzioni forfettarie e circa 600 a titolo di penalità (Fig. 6). Nel confronto europeo siamo di gran lunga il paese che ha dovuto versare la cifra maggiore: Grecia (350 milioni), Spagna (122 milioni) e Francia (91 milioni) si collocano infatti ben distanti, rispettivamente in seconda, terza e quarta posizione.[18] Inoltre, questo dato rileva maggiormente se teniamo presente che non tutti gli Stati membri sono stati condannati al pagamento di sanzioni per sentenze di seconda condanna, ma appena 11 sono stati tenuti a farlo.

Tornando all’Italia, la Figura 7 mostra come, tra le sei complessive, le sentenze più onerose siano state quelle relative alle discariche abusive e all’emergenza rifiuti in Campania: dal 2015 ad oggi, infatti, la prima ha comportato esborsi per oltre 232 milioni, mentre la seconda per oltre 217 milioni. Sotto il profilo temporale, i pagamenti sono aumentati notevolmente a partire dal 2015 a causa dell’aumento delle sentenze a carico dell’Italia, passate da una sola nel 2014 a quattro nel 2015. Il picco è stato nel 2018 quando l’Italia ha dovuto versare 149 milioni di euro. Attualmente, i pagamenti risultano leggermente ridotti e pari a 75 milioni. Come si vede nella Figura 7, i pagamenti relativi alle singole sentenze sono stati molto variabili da un anno all’altro, per due distinte ragioni. La prima è che l’Italia non sempre paga con regolarità le penalità che deve all’Europa.[19] La seconda è che le penalità somministrate dalla Corte contemplano il più delle volte la possibilità di subire decurtazioni in base allo stato di avanzamento nell’adempimento.[20]

[1] I casi di mancato recepimento contemplano anche le mancate comunicazioni di recepimento, mentre quelli di violazione del diritto anche le erronee trasposizioni di direttive.

[2] L’inadempimento alla normativa europea di uno Stato membro può essere riscontrato autonomamente dalla Commissione o attraverso segnalazioni di terzi; in entrambi i casi la Commissione non è obbligata ad iniziare una procedura in virtù degli ampi margini di discrezionalità che gli sono riconosciuti dai Trattati.

[3] La fase precontenziosa è solitamente preceduta da tentativi di risoluzione extra-giudiziale della controversia attraverso un meccanismo di interlocuzione tra Commissione e Stato membro noto come “EU-Pilot”.

[4] L’articolo 259 del TFUE riconosce anche agli Stati membri la facoltà di avviare una procedura d’infrazione, anche se di rado i paesi hanno usufruito di tale possibilità. In questi casi la procedura rimane la stessa, salvo che lo Stato proponente dovrà in primo luogo rivolgersi alla Commissione per riconciliare la disputa attraverso un contradditorio tra le parti che terminerà nell’emissione di un parere non vincolante da parte della Commissione stessa.

[5] Il dato presentato si riferisce al totale delle procedure attive, indipendentemente dallo stadio della procedura da esse raggiunto.

[6] Le prime posizioni sono occupate da Spagna (104), Regno Unito (94) e Grecia (90), le ultime da Danimarca (29), Lituania (40) e Estonia (41).

[7] Anche se, è opportuno ricordarlo, la sentenza emessa dalla Corte ai sensi dell’art. 258 del TFUE ha esclusivamente valore dichiarativo e non comporta l’irrogazione di sanzioni.

[8] Le materie mostrate nella Figura 3 sono state selezionate sulla base della percentuale di casi della materia nel periodo considerato rispetto al totale dei casi nel periodo considerato. Sono state incluse le materie per cui tale percentuale risulta maggiore del 5 per cento.

[9] Si evidenzia come, a causa della differente fonte dei dati (Commissione Europea vs Dipartimento per le Politiche Europee della Presidenza del Consiglio) e della conseguente diversa catalogazione delle procedure, il perimetro di alcune delle categorie presentate nella Figura 4 sia marginalmente diverso rispetto a quelle della Figura 3.

[10] Si veda: http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=114584&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=8605872.

[11] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2014-12/cp140163it.pdf.

[12] Nello specifico le direttive 75/442/CEE, 91/689/CEE e 1999/31/CE.

[13] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2015-07/cp150086it.pdf.

[14] Nella sentenza viene inoltre sottolineato il problema delle “ecoballe”, ossia dei rifiuti storici accumulati dalla regione, al tempo pari a sei milioni di tonnellate ancora da smaltire.

[15] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2015-09/cp150103it.pdf.

[16] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2018-05/cp180074it.pdf.

[17] Si veda: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-03/cp200029it.pdf.

[18] I dati sui pagamenti effettivi nel 2020 sono disponibili per l’Italia ma non ancora per gli altri paesi europei. Pertanto, i dati sulle sanzioni corrisposte per il 2020 sono stati stimati attraverso le sentenze di condanna della Corte, ipotizzando l’assenza di eventuali deduzioni per adempimenti intermedi.

[19] È il caso, ad esempio, della sentenza del 2015 relativa al recupero degli aiuti di Stato concessi alle imprese di Venezia e Chioggia. Come si è visto la sentenza richiedeva all’Italia di corrispondere una somma forfettaria da 30 milioni (pagata regolarmente nell’anno di emanazione della sentenza) e una penalità semestrale da 12 milioni. Nel 2016 però, l’Italia non ha corrisposto nessuna delle due rate di penalità dovute, rinviandone infatti il pagamento al 2017 (anno in cui invece non è stata pagata la quarta penalità semestrale).

[20] Su questo fronte, un esempio è rappresentato dalla sentenza relativa al tema delle discariche abusive. Come visto, l’Italia era stata condannata al pagamento di una penalità semestrale da 42,8 milioni, da corrispondere per ciascun semestre di ritardo nell’esecuzione della sentenza della Corte. La stessa sentenza, tuttavia, prevedeva che la penalità si sarebbe ridotta rispettivamente di 400 mila e 200 mila euro per ogni discarica di rifiuti pericolosi e non pericolosi messa a norma durante i vari semestri. E infatti, i pagamenti sono passati dai 39,8 milioni versati nel 2015 come prima rata di penalità agli 8,6 milioni versati nel 2020 come decima rata di penalità.

Economia in Quark – Il dopo Zingaretti, il blocco delle esportazioni di vaccini e la consulenza McKinsey, 8 marzo 2021

Le vicende politiche che seguono le dimissioni di Zingaretti, la decisione di Draghi di bloccare l’esportazione di vaccini verso l’Australia e una riflessione sulla consulenza alla multinazionale McKinsey per il Recovery Fund. Ne discutono gli economisti Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli e Alessandro De Nicola in una nuova puntata di Economia in quark.

Qui il link al video su “la Stampa”

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Draghi, il PNRR e McKinsey

di Giampaolo Galli, Inpiù, 8 marzo 2021

Nell’epoca Draghi, tutto è diventato dannatamente serio; vietato dire sciocchezze! Qualcuno non ce la fa più perché non sa più che dire nei talk show. Così, appena c’è uno spiraglio, si lascia andare a un po’ di scanzonata demagogia: forse gli fa bene alla salute, forse pensa che gli porti qualche voto in più.

Il governo si è rivolto a McKinsey per una consulenza sul PNRR. Apriti cielo! Piovono proteste da tutte le parti: non sia mai, una società privata, una della big della consulenza mondiale, i tecnici che si rivolgono ai tecnici! Dall’estrema destra all’estrema sinistra, la cantilena dei tweet e dei comunicati di agenzia è più o meno lo stesso. Stefano Fassina già urla al Parlamento umiliato e Giorgia Meloni grida allo scandalo perché c’è di mezzo niente meno – udite, udite – che una società privata, anzi – peggio, il peggio del peggio – una multinazionale! Lo Stato non è un’azienda – protesta Tomaso Montanari – e un governo non è un CdA. Diamine, aggiunge: “Siamo cittadini, non consumatori”, una frase che – ci scusi, Tomaso – ci ricorda proprio quella, più famosa, di un noto film con Totò.

In mezzo a tanto rumore per nulla, per fortuna c’è chi prova a dire cose più sensate. Antonio Misiani dice giustamente che se la governance è cambiata rispetto a quanto aveva comunicato Draghi, occorre una nuova comunicazione e una discussione in Parlamento. Il comunicato del Mef dovrebbe aver chiarito tutto: la governance non è cambiata e rimane sotto la guida del MEF in coordinamento con gli altri ministeri competenti. Le polemiche si sono un po’ placate, ma non del tutto. E allora chiediamoci: cosa impedisce che McKinsey fornisca utili suggerimenti a un ministero? E poi, non dovrebbe essere così difficile capire che McKinsey fa di mestiere piani operativi e lo fa per i privati e per le pubbliche amministrazioni in tutto il mondo; né dovrebbe essere difficile capire che in questo mestiere, che è piuttosto complicato, McKinsey è un‘ eccellenza assoluta. Ma forse c’è chi preferisce far finta di non capirlo. Forse il fatto è questo. Nell’epoca Draghi, tutto è diventato dannatamente serio; vietato dire sciocchezze! Qualcuno non ce la fa più perché non sa più che dire nei talk show. Così, appena c’è uno spiraglio, si lascia andare a un po’ di scanzonata demagogia: forse gli fa bene alla salute, forse pensa che gli porti qualche voto in più.

Tassi di interesse al minimo storico: quanto possono durare?

di Giampaolo Galli, Il Riformista, 3 marzo 2021

I titoli di Stato di molti paesi europei sono da tempo attorno allo zero o addirittura negativi. Ma cosa comporta questa realtà per la dinamica del debito pubblico? E quanto potrà durare questa condizione molto favorevole?

I titoli di Stato di molti paesi europei sono da tempo attorno allo zero o addirittura negativi. Anche i rendimenti dei titoli di  Stato italiani sono negativi fino alla scadenza a tre anni. Questo è in parte l’effetto della politica monetaria iper espansiva decisa dalla Bce per far fronte alla pandemia, ma già prima molti paesi avevano sperimentato tassi di interesse negativi. In ogni caso, questi dati di fatto spiegano perché il Presidente Draghi abbia detto che la sostenibilità del debito pubblico italiano dipende essenzialmente dal tasso di crescita che si realizzerà nei prossimi anni.

Ma cosa comporta questa realtà per la dinamica del debito pubblico? E quanto potrà durare questa condizione molto favorevole? La risposta alla prima domanda ci porta all’interno dello straordinario paradosso che è rappresentato da tassi di intessere negativi. Nessuna delle grandi teorie del tasso d’interesse aveva contemplato questa possibilità. Il tasso di interesse che si osserva sul mercato dovrebbe avere due grandi ancore. La prima è l’impazienza del risparmiatore che preferisce consumare oggi piuttosto che aspettare, a meno che l’attesa non sia adeguatamente remunerata dal tasso di interesse. La seconda àncora è rappresentata dal rendimento del capitale:  anche in questo caso, c’è una rinuncia a consumare oggi per investire in capitale produttivo e  il tasso di interesse, a volte definito naturale,  è il rendimento del capitale. In queste due ancore non c’è spazio per tassi di interesse negativi. Una teoria assai diffusa vede il tasso di interesse come quel prezzo che fa sì che il risparmio sia uguale all’investimento. Questa teoria è stata utilizzata la Lawrence Summers dell’Università di Harvard per stabilire l’ipotesi della “stagnazione secolare”: secondo questa teoria, nel mondo -da ben prima della pandemia- c’è eccesso di risparmio o, guardando il rovescio della medaglia, insufficienza di investimenti: una grande quantità di risparmio si riversa su pochi investimenti e finisce per essere costretto ad accettare rendimenti negativi. Questa è certamente una possibilità, a patto però di dimenticarsi i due pilastri a cui dovrebbe essere agganciato il tasso d’interesse: l’impazienza e il rendimento del capitale.   

E a patto di sorvolare su un altro straordinario paradosso. Con tassi negativi indebitarsi  è conveniente anche se si fa un uso inefficiente dei fondi presi a prestito. All’atto di indebitarsi infatti lo Stato acquisisce un flusso di cassa in entrata a fronte del quale otterrà in futuro altri flussi in entrata. Dal punto di vista del debitore, non esiste dunque una problema di scegliere quanto spendere oggi e quanto tassare domani, a carico delle future generazioni. Indebitandosi lo Stato può spendere di più sia oggi che domani. Per lo Stato questo è l’albero della cuccagna perché il conto lo pagano gli investitori, non le future generazioni. Lo stesso avviene quando il tasso di interesse è positivo, ma inferiore al tasso di crescita dell’economia.

Alcuni economisti ritengono che questa situazione, per quanto intrisa di paradossi, possa durare a lungo e fanno notare che i tassi a lungo termine, anche a trent’anni, sono molto bassi, segno che i mercati non si aspettano un ritorno dell’inflazione. Fanno altresì notare che, in prospettiva secolare, gli alti tassi di interesse (reali) che furono sperimentati negli anni ottanta sono stati un’eccezione.

Queste previsioni sono interessanti, ma sarebbe davvero imprudente prenderle alla lettera. Un minimo di valutazione del rischio deve essere fatta e i possibili contro argomenti sono tanti. Il primo è che i tassi a lungo termine in dollari sono già saliti notevolmente: erano all’1% nell’estate scorsa e sono ora al 2%; nelle ultime settimane hanno risentito della decisione della nuova amministrazione americana di varare un insieme di misure per ben 1,9 trilioni di dollari.  Il secondo è che per i  motivi detti, per uno Stato che si finanzia a tassi negativi, o comunque inferiori al tasso di crescita dell’economia, indebitarsi conviene: anzi, emettere debito è come fare un investimento con un valore attuale certamente positivo. Proprio per questo è facile prevedere che molti stati si indebiteranno, anzi lo hanno già fatto. Nell’anno terribile del Covid, il debito pubblico mondiale ha raggiunto il massimo storico, attorno al 100 per cento del Pil globale; a fronte di questo debito c’è un risparmio negativo di dimensioni gigantesche che potrebbe facilmente eliminare il (presunto) eccesso di risparmio globale. Se ciò accadesse, alla fine della pandemia, le banche centrali comincerebbero a preoccuparsi e ad aumentare i tassi d’interesse. Secondo alcuni, si tratta di una prospettiva lontana. Può darsi, ma oggi tutti diciamo che occorre creare una società più resiliente, ossia capace di affrontare situazioni di stress. E allora è giusto ricordare che anche negli anni settanta sembrava che i tassi reali rimanessero bassi per sempre; il risveglio fu amaro e il conto dell’errore di allora lo stiamo pagando ancora oggi.

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