Galli: Le condizioni per la ripresa – L’Unità 25/05/2013

Il conflitto fra esigenze sociali crescenti e disponibilità di risorse pubbliche è una costante in tutti i paesi. In Italia si manifesta  con grande intensità da due decenni per via dell’alto debito pubblico ed è stato spesso all’origine di tensioni sociali e crisi di governo. Ma forse mai questo conflitto si è manifestato con tanta intensità come oggi per via della gravità della crisi e per un risultato elettorale che ha premiato i partiti che promettevano drastici tagli di tasse.

Qualcuno dice che ancora una volta stiamo andando a sbattere contro un muro ben segnalato. Stando alle dichiarazioni programmatiche, nelle prossime settimane occorrerebbe trovare le risorse quantomeno per superare l’IMU, per evitare l’aumento dell’IVA, per favorire la creazione di posti di lavoro per i giovani, per rilanciare le infrastrutture, per sostenere il credito alle PMI, per prorogare le agevolazioni per l’efficienza energetica e per le ristrutturazioni edilizie.  Si tratta di non meno di dieci miliardi in sei mesi, ossia venti miliardi in un anno. Una cifra davvero enorme, da far tremare le vene. A maggior ragione se tiene conto di come è stato reperito il miliardo di euro, solo un miliardo, per rifinanziare la cassa integrazione in deroga. Si è attinto a risorse utili per il lavoro e per il futuro, come la formazione permanente e i contratti di produttività, segno non di cattiva volontà ma del fatto che non era affatto facile fare di meglio.

La cifra del governo Letta, la sua stessa ragion sociale dipenderà da come eviterà di andare a sbattere contro il muro. Forse riuscirà tener fede all’impegno assunto nel discorso della fiducia: “la riduzione fiscale senza indebitamento sarà un obiettivo continuo e a tutto campo”. Se ciò avverrà il governo avrà una mission che potrà piacere o no, ma sarà delineata con estrema chiarezza e corrisponderà alle aspettative di gran parte dell’elettorato. Una mission molto ambiziosa che forse solo un governo straordinario con una ampia maggioranza può darsi.

Anche la ragione sociale del Partito Democratico dipenderà da come si atteggerà di fronte a questa sfida del Paese, molto più che dal dibattito interno. Potrà accettare la sfida oppure atteggiarsi a difensore della spesa pubblica. Nel secondo caso, al PDL e, in parte, al M5S si schiuderanno vaste praterie per mietere consensi fra gli scontenti delle tasse. E gli esiti delle prossime elezioni, a cominciare dalle europee, saranno scontati.

Sotto il profilo politico, il punto chiave è che non vi alcun serio motivo per credere che il centro destra sia meno interessato del centro sinistra a difendere la spesa pubblica buona. Al di là delle chiacchiere da talk show, il centrodestra, se non altro per motivi di consenso, non è meno attento al welfare di quanto lo sia il centro sinistra. E il centrodestra sa bene, quanto lo sa il centro sinistra, che gli enti locali e le regioni sono in estremo affanno. Lo dimostra l’ostracismo in cui è caduto Giulio Tremonti all’interno del centro destra, in gran parte per via dei tagli che ha imposto ai suoi colleghi di governo.

Dunque, accettiamo la sfida. Cerchiamo di imporre al PDL di smettere di fare propaganda. Richiamiamolo ad un minimo di coerenza logica. Se tuona che bisogna ridurre questa o quella tassa, contribuisca con tutti noi a trovare le coperture. Si assuma con noi la responsabilità delle decisioni difficili. Forse si giungerà alla conclusione che, dopo i tagli degli anni scorsi, rimane ancora ben poco da tagliare. Questa è l’opinione di molte rispettabilissime persone, sia nel PD che nel PDL. Ma conta poco. Ciò che conta è che, se questa è la conclusione cui si deve arrivare, ad essa ci arrivino insieme tutti i partiti della maggioranza e, se possibile, l’opinione pubblica.  Altrimenti è a rischio il PD e, ancor più, é a rischio il governo.

Sappiamo che Berlusconi ha una straordinaria capacità di fare propaganda anche quando è al governo. Quante volte ha promesso di eliminare l’Irap o di dare la famosa frustata al cavallo dell’economia, salvo poi non farne nulla e addossare la colpa agli alleati o al Ministro dell’Economia. Riuscirà il PD ad ribaltare il tavolo e ad evitare di essere, per l’ennesima volta, la vittima  della campagna elettorale permanente di Berlusconi? Riusciremo ad evitare di essere quelli che impediscono al PDL di tagliare le tasse?

L’Unità 25 maggio 2013

Il Prof Brunetta e le teorie del baratro

Il professor Brunetta  torna a dirci che nel novembre 2011 non eravamo affatto sul orlo del baratro e che il baratro vero, quello dell’economia reale, è stato  causato dalle politiche di Monti. Non entro nel merito dei fatti e dei giudizi. Quello che non capisco è come faccia a dire che il risanamento dei conti pubblici, quello che ci consente oggi di uscire dalla procedura di infrazione,  è merito del governo Berlusconi che avrebbe fatto manovre da ottanta miliardi. Ne sembra tanto convinto che nella risoluzione sul DEF ci ha indotto a scrivere che i conti pubblici sono stati messi in sicurezza dai precedenti governi, al plurale (ossia Monti e Berlusconi). Se Monti ha creato il baratro con una manovra da venti miliardi, com’è che le manovre fatte in precedenza per ben ottanta miliardi non avrebbero avuto alcun effetto recessivo. I casi sono due. O gli ottanta miliardi erano scritti sull’acqua a futura memoria –  insomma fumo negli occhi dei mercati che infatti non ci hanno creduto  – oppure al governo di cui lui era ministro vanno attribuiti circa quattro quinti della recessione nella quale siamo caduti.

Il punto è che il Prof Brunetta non può al tempo stesso attribuirsi il merito di aver risanato i conti e addossare ad altri la responsabilità della recessione.

Né può parlare a cuor leggero  di “politiche economiche sbagliate implementate con la pistola alla tempia dello spread e dell’Europa a trazione tedesca”, dato che fu proprio lui a dire che la lettera della BCE dell’agosto 2011 altro non era se non una esplicitazione del vero progetto liberale di sempre del suo partito, anticipo del pareggio di bilancio al 2013 compreso. E’ ancora vero? Il pareggio nel 2013 fa ancora parte del vero progetto liberale?

Oggi, caro Brunetta, siamo nella stessa maggioranza e abbiamo le stesse responsabilità verso il Paese. La condizione per lavorare insieme proficuamente, come dobbiamo fare, è di ragionare pacatamente rispettandoci a vicenda. Io rispetto sinceramente la tua intelligenza prorompente. Buon lavoro, Presidente.

Giampaolo Galli, Mauro Marè: Imu da riformare più che da abolire. Europa 21/05/2013

Bene ha fatto il governo a mantenere fede all’impegno programmatico in materia di Imu su cui aveva ottenuto la fiducia del parlamento. L’imposta era stata oggetto di promesse elettorali da parte di tutte le forze politiche e ha degli indubbi punti critici, per quello che riguarda le famiglie più povere, oltre che per gli immobili strumentali. Ciò non toglie che eliminare del tutto una qualche forma di imposizione sulle prime case sarebbe un serio errore di politica economica.

Da qui alla fine di agosto, se prevarrà un clima di minore tensione fra le forze politiche, forse ci sarà modo di trovare soluzioni adeguate. La tassazione sulla proprietà della casa, in luogo di altre tasse, è da sempre negli auspici degli economisti e delle organizzazioni internazionali perché è quella che ha i minori effetti negativi sulla crescita economica, è tendenzialmente progressiva, è fra le più difficili da evadere e fra le meno costose da amministrare. È la tassa giusta per finanziare gli enti locali.

Ci sono pochi dubbi sul fatto che, tra le diverse cause della bassa crescita, il livello elevato della pressione tributaria sia fra le principali. La sua riduzione, senza creare nuovo indebitamento, è una priorità del governo. Vi è però anche un problema di composizione del gettito. Tutti gli studi internazionali hanno evidenziato in modo chiarissimo che le varie imposte hanno effetti diversi sulla crescita economica (si veda, ad esempio, questo lavoro delCenter for Tax Policy dell’Ocse e questo di Johansson-Heady-Arnold-Brys-Vartia; e questo lavoro di M. Keen del Fiscal Affairs Department dell’IMF).

Le imposte ordinarie sul patrimonio, in particolare quelle sulle abitazioni, e quelle sui consumi sono le meno distorsive, mentre quelle sui redditi da lavoro e da impresa sono le più negative per l’economia, perché scoraggiano gli investimenti, l’imprenditorialità, gli sforzi individuali dei lavoratori, autonomi o dipendenti che siano. Una variazione della composizione del prelievo, anche a parità di gettito, può avere effetti notevoli sul potenziale di crescita dell’economia. L’Italia rispetto agli altri paesi Ocse e Ue ha un prelievo fortemente concentrato sulle basi più distorsive e con maggiori effetti negativi sulla crescita. Molti paesi dell’Ue hanno spostato il prelievo su queste altre basi da molto tempo e alleggerito notevolmente quello sui fattori produttivi (si veda Taxation Trends, European Commission, 2013).

Se per coprire il mancato gettito dell’Imu il governo riuscirà a tagliare spese improduttive non potremo che rallegrarci. Rimarrà il rammarico che quegli stessi soldi avrebbero potuto essere utilizzati per ridurre le imposte che davvero frenano la crescita dell’economia.

Quasi tutti i paesi ricorrono alle imposte sulla casa, perché tendono ad avere effetti positivi sull’equità, oltre che sull’efficienza, in quanto il valore del patrimonio immobiliare cresce al crescere del reddito e l’evasione è molto contenuta. In Italia, secondo i dati delle finanze, l’85 per cento per cento dei contribuenti ha pagato meno di 400 euro e solo il 10 per cento ha pagato più di 500 euro. Si stima che, anche per effetto delle detrazioni, i contribuenti con reddito inferiore a 26.000 euro hanno versato meno di 200 euro, una cifra verisimile, anche se i redditi sono quelli dichiarati, dal momento che il gettito di quattro miliardi viene da 17,8 milioni di contribuenti e che dunque il versamento medio per contribuente è stato di 225 euro.

Può apparire strano che su numeri di questo genere sia fatto tanto rumore. Anche qui le ricerche effettuate sulla base dell’esperienza di molti paesi ci vengono in aiuto. Sotto il profilo politico, il punto chiave è che le imposte sulla casa sono molto più trasparenti delle altre forme di imposizione: chiunque può sapere dove abito, ma è molto più difficile sapere qual è il mio reddito. Ciò significa che è molto facile coglierne incongruenze e ingiustizie, come avviene in particolare per effetto di valori catastali che non riflettono i valori di mercato e che richiedono sicuramente una revisione. Ma incongruenze e iniquità esistono anche, e in misura ben maggiore, per le imposte sul reddito. La differenza è che sono meno visibili e appaiono molto meno nel dibattito pubblico.

Si può dunque riformare l’imposta, mitigando anche il peso sulla prima casa, ma non vi sono ragioni per abolirla del tutto. Aggiungiamo, se la abolissimo, faremmo più fatica a far valere le nostre ragioni ai tavoli europei, dal momento che in tutta Europa, Germania e Francia comprese, si paga una tassa sulla prima casa. Non sarebbe dunque facile chiedere sconti sul fronte della disciplina di bilancio, spiegando che abbiamo un drammatico problema di disoccupazione giovanile. Sulla base dei fatti, avremmo dimostrato che in realtà le nostre priorità sono altre.

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