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Salario minimo e la libertà di associazione sindacale
di Giampaolo Galli, Inpiù, 29 luglio 2023
Le obiezioni alla proposta delle opposizioni sul salario minimo
Articoli di Giampaolo Galli
di Giampaolo Galli, Inpiù, 29 luglio 2023
Le obiezioni alla proposta delle opposizioni sul salario minimo
Dove si potrebbe sperare di trovare qualche buona notizia sull’economia italiana se non in un settore, come quello della trasformazione digitale, che è in gran parte nuovo e sul quale si potrebbe immaginare che il peso dei problemi ereditati dal passato sia minore? Purtroppo anche in questo campo le cose non vanno affatto bene. Lo confermano gli indicatori Desi (Digital Economy and Society Index) dell’Ue, un massiccio referto della Corte dei Conti e una recente ricerca dell’Osservatorio dei Conti Pubblici. L’indice Desi complessivo, che ha decine di sotto-indici ed è costruito sulla base di fatti oggettivi e non di opinioni, ci dice che siamo al 24° posto su 28 paesi dell’Ue. Peggio dell’Italia fanno la Polonia, la Grecia, la Romania e la Bulgaria. Le dimensioni che più ci penalizzano sono le competenze digitali (in cui l’Italia è al 26° posto) e l’utilizzo di Internet (25° posto). Anche nelle altre dimensioni l’Italia non ha una buona posizione: siamo al 23° posto per la digitalizzazione delle imprese (ahinoi, qui piccolo è davvero poco bello!) e al 19° per connettività (ci salva il fatto di avere realizzato le aste per il 5G, ma l’implementazione è ancora lontana). Nella digitalizzazione dei servizi pubblici apparentemente stiamo un po’ meglio (18° posto), ma a ben guardare ciò è dovuto essenzialmente al decreto Madia (cosiddetto Foia) che ha obbligato le amministrazioni a mettere sui propri siti le informazioni sui pagamenti, stipendi inclusi; un’ottima cosa, ma di qui a dire che la nostra Pa è davvero trasparente ce ne passa.
Leggi tutto “Nella trasformazione digitale siamo molto indietro rispetto agli altri Paesi, di Giampaolo Galli, Inpiù, 14 gennaio 2020.”Se avesse ragione Borghi, la Lega non avrebbe avuto ragione di esistere.
Se avesse ragione Claudio Borghi, le Lega Nord non avrebbe mai avuto ragione di esistere. Le sue bizzarre teorie “sovraniste” sono infatti la negazione della ragione sociale della Lega, nel senso che negano in radice ogni validità logica a tutto ciò che la Lega, quando era ancora Lega Nord, sosteneva a proposito delle Regioni del Sud, alle quali si dovevano imporre i costi standard (ricordate?) perché i contribuenti della Padania erano stufi di pagare il conto.
Un cittadino del Sud – chiamiamolo Salvatore Borghi – che avesse avuto allora le stesse idee che ha adesso l’on. Borghi avrebbe potuto rispondere, con l’aria scanzonata di quello che sa che gli altri stanno dicendo panzane colossali: “Ma fatemi capire! Che problema c’è? Basta che la Banca d’Italia metta i soldi nelle regioni del Sud e la spesa delle amministrazioni del Sud è perfettamente sostenibile e non pesa sui cittadini del Nord. È così semplice!”
Al che un cittadino padano di solido buon senso, chiamiamolo Helmut Bossi, avrebbe ovviamente risposto: “Eh no, caro Borghi, lei non può pensare di prenderci per il naso in questo modo. Noi vogliamo i costi standard perché non è giusto che al Sud una siringa costi tre volte di più che al Nord”.
S. Borghi: “Caro Helmut Bossi, lei non ha capito niente di cos’è una Banca Centrale e non sa nulla della MMT (moderna teoria monetaria)”
H.Bossi: “Io so una cosa sola: nella Padania, la ricchezza ce la siamo creata con il sudore della fronte, non ce l’ha regalata nessuno”.
S. Borghi: “Ma che dice! Vuole che le faccia il conto delle città del Nord che sono state salvate dallo Stato o dei vostri banchieri bancarottieri salvati dalla Banca d’Italia?”.
H.Bossi: “Guardi, da noi i soldi circolano perché la gente lavora e crea ricchezza. Non è che c’è la ricchezza perché circolano i soldi. E la Banca d’Italia non è l’albero della cuccagna; la Banca d’Italia è di tutti gli italiani e quindi alla fine a pagare il conto per il Sud sarebbero sempre i padani che più di tutti contribuiscono a produrre il Pil della nazione”.
S. Borghi: “Ah, proprio non capisce. Eppure è così semplice. Dove crede che li prende i soldi la Banca d’Italia: li stampa e basta! È così semplice”.
H. Bossi: “No, no, ho capito benissimo. Voi del Sud state soltanto cercando delle gabole per sfilarci i soldi che noi e nostri padri ci siamo guadagnati con tanti sacrifici. Sa cosa le dico: va, va…vada a laurà, Signor Borghi”.
P.S. Per fortuna, in Italia le posizioni della Lega Nord non hanno mai impedito che si realizzasse un certo grado di solidarietà fra le regioni italiane. E per fortuna nessun meridionalista ha mai sostenuto le sciocchezze di Salvatore Borghi. Diciamo per fortuna, perché argomenti del genere avrebbero ancor più avvelenato i rapporti fra regioni italiane. Purtroppo invece, questi stessi argomenti oggi avvelenano i nostri rapporti con i paesi del Nord Europa perché inducono un certo numero di italiani a credere che la Bce sia l’albero della cuccagna e che i paesi del nord ci vogliano impedire di mettere le mani su di essa per sadismo, senza nessun valido argomento.
La cosa più grave è che questi falsi argomenti ci impediscono di far avanzare le più che legittime richieste del Mezzogiorno d’Europa, come una maggiore condivisione dei rischi e una migliore governance dell’Eurozona.
Infine questi argomenti ci impediscono di capire che dobbiamo tenere in ordine i conti pubblici e che lo spread è un rischio serio che non può essere esorcizzato con l’argomento che la Bce dovrebbe comprare i nostri titoli, e tenerli in portafoglio per sempre. Perché la BCE non è e non può essere l’albero della cuccagna. Come non lo era la Banca d’Italia; se lo fosse stata, la Lega Nord non avrebbe mai avuto ragione di esistere.
E’ tutto scritto nel libro dell’onorevole Bagnai.
In un articolo sul Sole 24 Ore del 23 maggio, Lorenzo Codogno ed io abbiamo argomentato che, secondo i teorici leghisti no-euro, l’uscita dall’euro deve essere mantenuta segreta fino all’ultimo momento, il che rende poco credibili le affermazioni secondo cui l’intenzione del nuovo governo non è quella di uscire dall’euro. La faccenda della segretezza è sviluppata in un libro di Alberto Bagnai, ora deputato della Lega e molto vicino all’onorevole Claudio Borghi, intitolato “Il tramonto dell’euro” (Imprimatur editore, 2012). Anche se l’autore cerca di minimizzare l’entità dei problemi, egli è sostanzialmente consapevole che l’uscita dall’euro è un evento traumatico. Tant’è che il capitolo dedicato alla exit strategy si apre con questa frase: “Per chi sarà al governo al momento dell’uscita, gli elettori non avranno pietà”.
Bagnai non pensava che l’euro avrebbe potuto crollare quando al governo o comunque in maggioranza ci sarebbe stato proprio lui! Dunque, questa frase, che è indubbiamente vera, suona oggi un po’ ironica e forse è bene segnalarla a Salvini, a Di Maio e al nuovo Presidente del Consiglio.
Il perché di questa frase lo si capisce procedendo nella lettura. A pagina 325, c’è un paragrafo che si intitola: “La fase uno: attaccheremo all’alba”. Il linguaggio è volutamente militare, perché in effetti l’uscita ha le caratteristiche di un’operazione militare: “L’uscita deve, nella misura del possibile, cogliere alla sprovvista, giungendo inaspettata”.
Il motivo è chiaramente spiegato: “Nel momento in cui si annunciasse l’uscita del Paese dall’eurozona, si verificherebbero immediate fughe di capitali, perché gli operatori residenti (famiglie, imprese, istituzioni finanziarie) cercherebbero di depositare i propri euro all’estero, temendo le conseguenze della svalutazione”.
Giusto e – aggiungiamo noi – nessuno comprerebbe più titoli di Stato per cui le aste andrebbero deserte e l’amministrazione pubblica non avrebbe più le risorse per far fronte alle proprie obbligazioni (pensioni, stipendi, fornitori, ecc.). Sarebbe quindi il caos, nel senso letterale del termine: ci sarebbe molto da fare per il ministro degli Interni.
Peraltro il nostro riconosce che mantenere la segretezza non è facile “perché l’operazione necessita di un minimo di pianificazione (e quindi il coinvolgimento di diversi soggetti istituzionali) e sarebbe opportuno che avvenisse in modo coordinato con gli altri membri dell’Eurozona e le istituzioni europee, che devono essere in grado di prendere provvedimenti per minimizzare lo stress sui mercati”.
Giusto; e poi c’è un altro problema, che non è chiaro chi decide; correttamente l’autore si chiede se una decisione del genere non richieda una legge del Parlamento (e allora addio segretezza!) o se possa invece essere presa per decreto, salvo poi rischiare che il Parlamento non lo converta. Alla fine non si capisce come si potrebbe fare e si adombra la possibilità di “convocare una seduta speciale del Parlamento a mercati chiusi (venerdì sera?) per approvare d’urgenza una legge speciale”.
Quello che si capisce è che se l’intenzione del Paese di abbandonare l’euro trapelasse prima del dovuto (il che – abbiamo capito – sarebbe inevitabile) occorrerebbe prendere una lunga serie di misure draconiane volte a impedire a residenti e non residenti di portare i capitali, inclusi i depositi e le banconote, all’estero, “vietare l’accensione di crediti e debiti con controparte estera” (!!!??) e persino “vietare il rimpatrio dei profitti percepiti da aziende straniere sul territorio nazionale”. Più avanti, si parla di “chiudere i bancomat per evitare i prelievi durante il weekend” e di permettere l’uso dell’euro, ma solo per regolare piccole transazioni, in attesa che si completino i preparativi per mettere in circolazione il nuovo conio. E si propone di imporre alle banche di comprare i titoli del debito pubblico.
Queste misure, che forse funzionano nella Corea del Nord e in nessun altro paese, sarebbero giustificate dalla “necessità di gestire un’ondata di panico bancario”. Può darsi, ma non è chiaro come l’economia possa sopravvivere anche solo un mese (ma si adombra la possibilità che ci vogliano invece sei mesi) in assenza o quasi di transazioni, mentre si fanno tutti i preparativi necessari: il collasso sarebbe pressoché inevitabile.
Né si capisce come possano sopravvivere le imprese e le banche che hanno debiti in euro e ricavi in nuove lire, dopo l’uscita dall’euro e la svalutazione della nuova moneta. Ma anche di questo problema il nostro è consapevole e a pagina 360 elenca le possibili contromisure che consistono nella sostanziale statalizzazione (temporanea?) dell’economia. “Le principali aziende di credito dovranno essere commissariate”, per le grandi imprese “la proposta è quella di valutare caso per caso la necessità di un sostegno pubblico”, per le piccole e medie imprese “la proposta è di allestire per esse linee di credito agevolato all’1%”.
Come si vede, si tratta di operazioni a rischio elevatissimo, in cui un piccolo errore di valutazione del governo può provocare danni gravissimi. E si tratta di operazioni di ammontare ingente che ovviamente verrebbero finanziate dalla banca centrale, con inevitabili conseguenze sull’inflazione.
Aggiungiamo che, secondo il nostro, il debito pubblico andrebbe tutto ridenominato nella nuova moneta, il che per i mercati significa default: lo Stato aveva promesso euro e invece restituisce lire svalutate. Ciò comporterebbe l’isolamento internazionale dell’Italia, cause infinite e, soprattutto, contromisure, sotto forma ad esempio di tariffe doganali, da parte degli altri paesi, che non starebbero certo a guardare.
La conclusione è che i teorici dell’uscita dall’euro sanno benissimo che si tratta di un’operazione ad altissimo rischio. Quindi non possiamo che auspicare che di ciò si rendano conto i politici che stanno formando il governo.
Per quello che ci riguarda, non possiamo che ribadire che le rassicurazioni sul fatto che l’Italia rimarrà nell’euro ci paiono poco convincenti: ci rimarrà sempre il dubbio che stanno solo cercando di prevenire il panico. Peraltro, l’Onorevole Claudio Borghi, che era presente al tavolo delle trattative per il cosiddetto contratto di governo ed è l’ispiratore dei miniBot e della sciagurata proposta di cancellare il debito con la Bce , ha sempre criticato l’idea del M5S di fare un referendum sull’euro, perché farebbe venire meno la segretezza del piano di uscita.
Aggiungiamo che, negli anni scorsi, tutto ciò che abbiamo scritto qui è stato oggetto di presentazioni pubbliche agli operatori finanziari internazionali ed è dunque ben noto ai mercati, che non possono che avere gli stessi dubbi che abbiamo noi.
Per fortuna, a quanto pare, nella coalizione di governo non sono tutti della stessa opinione. Ma ciò su cui sono divisi – è bene saperlo – è la questione di gran lunga più importante che dovrà essere affrontata.
Sintesi
L’esperienza della Grande Recessione ha indotto alcuni a sostenere che la disciplina di bilancio può essere controproducente nel senso che può peggiorare, anziché migliorare, le prospettive per i conti pubblici. In questo lavoro si argomenta che la disciplina fiscale è invece un ingrediente necessario di qualsiasi piano di consolidamento fiscale. Proposizioni alternative, come quelle che sostengono che la disciplina fiscale è controproducente, si rivelano fondamentalmente insostenibili nell’ambito di un modello keynesiano standard, in cui il reddito nazionale è trainato dalla domanda; sono teoricamente possibili, ma empiricamente non plausibili, se si prendono in considerazione gli effetti ‘supply side’ che possono essere indotti da politiche di sostegno della domanda. Tuttavia, possono verificarsi casi particolari di gravi recessioni in cui politiche fiscali restrittive hanno effetti perversi sul rapporto debito/PIL che durano diversi anni; questa circostanza può rappresentare una seria sfida per i policymakers. Inoltre, nelle recessioni profonde gli effetti d’isteresi delle politiche possono essere importanti, il che suggerisce che, in alcuni casi, manovre espansive temporanee possono essere appropriate e possono, in parte, autofinanziarsi.