Mettere mano alle grandi riforme ma anche scegliere una classe dirigente in grado di stabilire le priorità.
Caro Reichlin,
mi fa piacere che tu mi abbia chiesto un parere sulla tua nota.
Non so se sono la persona più adatta per ragionare di problemi relativi al ruolo dei partiti. Ma certamente ho opinioni sui temi della crisi italiana e su cosa potrebbe fare una politica fortemente rinnovata.
Concordo con te che “la crisi italiana è arrivata al rischio di esiti catastrofici”. Non credo affatto che questa sia un’iperbole. Concordo anche che una crisi che, fra vicende alterne, dura da quarant’anni “non è solo crisi economica”. Dico quarant’anni perché da quarant’anni l’Italia è scossa da crisi economiche e finanziarie ricorrenti. Oggi tanti dimenticano cosa furono gli anni settanta, per il terrorismo e l’inflazione, ma anche per gli aspetti finanziari, e quanto fu grave la crisi del 1976, che inaugurò il “quinquennio di fuoco” di Paolo Baffi. Gli anni ottanta andarono un po’ meglio, ma fummo incapaci di evitare continue svalutazioni della lira e mettemmo sotto il tappeto i problemi accumulando un debito pubblico enorme, nel disinteresse di quasi tutti.
Poi i due ictus tremendi: quello del 1992 e quello del 2011. Ed ora siamo ancora lì, con l’aggravante che il paese ha smesso di crescere da quindici anni, da cinque anni vive una recessione profondissima e la politica è nel più totale discredito.
Dunque dopo quarant’anni ci si deve chiedere perché non ne siamo usciti. E ci si deve interrogare sui fattori di fondo, politici, istituzionali e persino morali, che ci hanno bloccato.
La cosa che più mi sconforta è che non siamo riusciti a sistemare le cose neanche dopo la crisi del 1992. Il nostro debito pubblico è ancora ai picchi degli anni novanta e l’Italia rimane un paese fragile, in balia delle bizzarrie e delle ansie dei mercati finanziari. Eppure avevamo una classe dirigente di prim’ordine. Ciampi, Prodi, Padoa-Schioppa, Andreatta, Spaventa e tanti altri ci avevano indicato le strade da percorrere per coniugare crescita e risanamento, stato sociale e globalizzazione. Oggi non so più a che santo votarmi.
Nel seguito, provo a sintetizzare i miei pensieri sulle questioni economiche, perché mi pare che su di esse è necessario un forte chiarimento nel partito. Proverò poi a esprimere qualche pensiero sui fattori extra-economici della crisi italiana.
Da metà degli anni novanta l’Italia ha smesso di crescere. Il fenomeno si è aggravato negli anni 2000, ben prima della crisi dei subprime, quando ha assunto connotati assolutamente clamorosi e sconcertanti. Siamo uno dei due o tre paesi al mondo con la più bassa crescita dell’economia.
Come accidenti è stato possibile? Quale maledizione epocale si è abbattuta sul nostro martoriato paese?
Come ben sai, gli economisti fanno fatica a dare risposte convincenti a domande di questo tipo. E’ difficile spiegare davvero perché storicamente le cose siano andate bene negli Stati Uniti e non in Messico o perché l’Argentina sia decaduta dopo essere stato uno dei paesi più floridi al mondo. Vi sono però alcune tracce utili per un ragionamento. Ne cito tre.
- Negli anni novanta hanno pesato negativamente politiche di bilancio restrittive, che pure erano assolutamente necessarie per riportare in equilibrio i conti pubblici e per entrare nella moneta unica. Dunque questa parte del rallentamento era quasi inevitabile, il costo da pagare per decenni di dissipatezze.
- Negli anni successivi la politica di bilancio è stata espansiva – al punto che in poco tempo fu azzerato il consistente avanzo primario ereditato da Ciampi – ma era nel frattempo iniziata una straordinaria perdita di competitività dovuta ad una crescita dei salari nominali maggiore che nei paesi concorrenti e a una pessima performance della produttività, comunque misurata. Su questi punti l’analisi della BCE presentata da Draghi nel marzo scorso ai Capi di Stato mi pare definitiva. Il confronto con la Germania è impressionante ed è sintetizzabile in due dati: quello dei salari nominali, che dal 2000 ad oggi sono cresciuti di poco più del venti per cento in Germania e di quasi il quaranta per cento in Italia. E quello della produttività, che nello stesso periodo è cresciuta del diciotto per cento in Germania e meno del tre per cento in Italia. Se fossero ancora fra di noi, Paolo Sylos Labini ed Ezio Tarantelli ci spiegherebbero che la maggiore dinamica dei salari nominali in Italia non si è tradotta in maggiori salari reali, ma essenzialmente in maggiore inflazione – non più di uno o due punti l’anno che però si cumulano nel tempo. E che, comunque, senza crescita della produttività alla lunga non possono crescere i salari reali. Concordo con te che sarebbe sbagliato buttare la croce addosso ai sindacati, anche perché ben pochi si resero conto dei problemi che si stavano accumulando.
- A sua volta la pessima performance della produttività è questione complessa, che riflette le caratteristiche di un sistema che non ha saputo cambiare abbastanza rapidamente per far fronte alle grandi sfide del millennio: la globalizzazione, la rivoluzione informatica e la moneta unica. Anche qui è difficile prendersela con i sindacati. Le responsabilità sono diffuse e riguardano i tanti record negativi dell’Italia nelle graduatorie internazionali, di cui abbiamo preso consapevolezza in questi anni: tempi della giustizia, incertezza del diritto, burocrazia, sprechi nella gestione della cosa pubblica, scuola, ricerca, evasione fiscale e correlata elevatezza della pressione sugli onesti ecc.
Condivido con te che bisogna partire dai più deboli e dal lavoro, come “luogo della relazione e luogo dell’autonomia”. Condivido che bisogna “mettere in campo un’idea meno oligarchica di democrazia”. Lo condivido per scelta valoriale e perché altrimenti il sistema politico e sociale non regge.
La sfida è quella di coniugare queste esigenze con i vincoli economici che derivano dai fatti che ho sommariamente passato in rassegna. Penso, in sostanza, che dobbiamo replicare, con maggiore intensità e in un contesto infinitamente più complesso, ciò che facemmo con Ciampi negli anni novanta, non solo sul fronte della finanza pubblica ma anche su quello della produttività e dell’inflazione. Per punti sinteticissimi:
- Sulla finanza pubblica siamo costretti ad attenerci rigorosamente alla regola del pareggio di bilancio, la quale, nei numeri, equivale all’avanzo primario del 5-6 per cento che avevamo ereditato dalla gestione Ciampi dei conti pubblici. Non vedo altro modo, specie in un contesto di bassa crescita, per rendere sostenibile il nostro debito. Questo vincolo può essere solo marginalmente attenuato da massicce dismissioni di asset pubblici, che pure devono essere fatte. Illustri economisti e tanti osservatori italiani e stranieri pensano che non ce la faremo, che il vincolo è troppo stringente. E quindi elaborano piani B (imposte patrimoniali straordinarie, ristrutturazione del debito, uscita dall’euro, prestiti forzosi) che però mi paiono più o meno tutti rimedi peggiori del male che si vuole curare. Peggiori, specie per i ceti più deboli che hanno in Italia la loro unica fonte di reddito e che in Italia detengono tutti i loro risparmi. Su questi punti un chiarimento definitivo su dove sta il Partito Democratico sarebbe utile.
- Sul tema competitività, la via maestra è quella di proseguire nella direzione di riforme che consentano di far fare un balzo alla produttività del sistema, a cominciare dal settore dei servizi e dalla PA, nonché di eliminare inefficienze nella spesa pubblica e contrastare l’evasione per ridurre la pressione fiscale. Nei giorni scorsi Yoram Gutgeld ha presentato una serie di progetti che forniscono utili spunti per fare queste cose. Non metterei in contrapposizione le proposte di Gutgeld con la tradizione del PD. Anzi quelle proposte a me sembrano un’evoluzione di ciò che cercò di fare il governo Prodi con Padoa-Schioppa e Bersani. Discutiamone laicamente e con la consapevolezza che da cose di quel tipo dobbiamo passare.
- Ma è anche improbabile, come dice Michele Salvati, che le riforme dal lato dell’offerta, per quanto ben concepite, possano trasformare la società italiana in gazzella. Come faremo dunque a recuperare quei trenta punti di competitività perduta che pesano come un macigno sulle prospettive di crescita dell’economia? Posto che non possiamo svalutare e che la rottura dell’euro sarebbe un disastro, occorre una discussione molto seria, di cui non vedo traccia. E non ha senso dividersi fra quelli che buttano la croce addosso alle nostre imprese (troppo piccole, a controllo famigliare, poco propense a fare ricerca e internazionalizzarsi) e quelli che invece fanno notare che è già un miracolo che sopravvivano e mietano notevoli successi nell’export malgrado un ambiente normativo tremendamente ostile.
La convinzione che mi pare prevalga fra gli economisti seri nel mondo è che l’aggiustamento di prezzi e salari avverrà spontaneamente ma molto lentamente, a seguito di un altro decennio segnato da stagnazione dell’economia, alta disoccupazione, disarticolazione dei sindacati, smantellamento dei diritti. Questa mi sembra una prospettiva verosimile – peraltro è già in corso – ma da incubo. Non so come potremmo in queste condizioni garantire la tenuta sociale e politica del paese, nonché la nostra stessa appartenenza alla moneta unica. Mi chiedo quindi se non si possa mettere in campo un atto di volontà forte, un po’ come fece Ciampi nel 1993. Dopotutto, le parti sociali esistono ancora! Forse con esse possiamo negoziare, come propone Marcello Messori, obiettivi di produttività cui legare la dinamica contrattuale, oppure una nuova politica dei redditi, di tutti i redditi, che dovrebbe proporsi un obiettivo di “inflazione zero”. Ciò al fine di recuperare uno o due punti di competitività ogni anno ed evitare una stagnazione economica infinita e insostenibile. Il primo passo di politiche di questa natura dovrebbe essere una riduzione dell’Irpef sui redditi bassi per sostenere il potere d’acquisto.
Va da sé che l’aggiustamento dell’Italia sarebbe più facile se in Europa prevalessero orientamenti meno austeri oppure se la BCE fosse disposta ad assecondare un po’ di inflazione. Ma non ci conterei troppo perché ciò non è nell’interesse dei paesi “core” e comunque contrasterebbe con le preferenze degli elettori di quei paesi. In assenza di unione politica, i politici tedeschi devono rispondere agli elettori tedeschi. Se non lo facessero andrebbe in crisi anche la democrazia tedesca, che non mi pare una prospettiva accettabile.
Dunque le sfide che abbiamo davanti sul fronte economico sono davvero molto difficili. Provo ora a dire due o tre cose sui fattori extra-economici che ci hanno portato alle condizioni attuali.
- Governi in trincea. I governi della cosiddetta seconda repubblica hanno avuto vita media più lunga, ma orizzonti temporali persino più brevi di quelli della prima. A posteriori parliamo del decennio o addirittura del ventennio berlusconiano. Ma ex-ante questo non è mai esistito. Non fu stabile il governo Berlusconi del 2001. Tremonti una volta disse che il programma dei 100 giorni fu così battezzato perché “speriamo di campare 100 giorni”. I nostri governi stanno come i soldati in trincea o come “d’autunno sugli alberi le foglie”. Sopravvivono se domani mattina fanno un decreto che si possa vendere bene al prossimo talk-show.Questa è una vera follia, che impedisce di programmare, fare strategie, amministrare. In queste condizioni non si governa neanche un condominio.
- La classe dirigente. L’economia non è governata perché i governi vivono alla giornata, ma anche perché, come tu dici, non c’è una classe dirigente in grado di vedere i problemi e stabilire le priorità. In Germania la differenza l’ha fatta la classe dirigente del partito socialdemocratico nei primi anni duemila. Mentre in Italia si negava la crisi, Shroeder diceva la verità ai tedeschi e parlava della sfida della globalizzazione. Fece le riforme che erano necessarie. Confermò e accentuò una linea di estrema moderazione salariale che era già stata avviata con il consenso dei sindacati, un po’ come Ciampi era riuscito miracolosamente a fare nel 1993. Dei due malati d’Europa, Italia e Germania, uno è guarito ed è molto competitivo. Purtroppo la guarigione della Germania ha peggiorato i guai dell’Italia.
- Berlusconi. Berlusconi e suoi hanno portato al parossismo i mali della nostra classe dirigente. Non hanno realizzato nulla di nulla del loro programma liberale perché non puoi combattere né l’oppressione fiscale né quella burocratica se non ti dai un vero programma di riorganizzazione della amministrazione pubblica, il che richiede un orizzonte di medio termine e comporta costi politici nell’immediato. Hanno lasciato incancrenire i problemi, negandoli di fronte all’assoluta evidenza di essi. Per coprire i loro fallimenti, si sono inventati capri espiatori o nemici inesistenti, da Merkel, al FMI, ai giornalisti anglosassoni, ai magistrati. Oggi, sulla questione delle tasse, non propongono nulla riguardo alle coperture, ma massacrano il Ministro dell’Economia, replicando – ahinoi! – lo schema sciagurato che ci portò alla crisi del 2011. Nel 2006-2008 Prodi, Padoa-Schioppa e Bersani, sostenuti dal gruppo dirigente del nostro partito, cercarono di avviare dei rimedi alla crisi italiana, ma con poco successo, anche perché il governo durò poco ed era troppo eterogeneo al suo interno.
Il problema non riguarda dunque solo la forma di governo. Riforme della legge elettorale e della Costituzione che rendano il paese più governabile aiuterebbero, specie se si riuscisse a fare il gran salto verso un sistema semi presidenziale. Ma da sole non bastano. Occorre una classe dirigente. E qui entrano in gioco i partiti, nonché le organizzazioni di rappresentanza sociale, che formano e selezionano pezzi importanti della classe dirigente.
Ma qui mi fermo. Mi pare che Fabrizio Barca, che ben conosce i temi macroeconomici, abbia delle idee su come si possano coniugare vincoli macroeconomici che vengono “dall’alto” con la legittimazione democratica che non può che venire “dal basso”. Per ora, certamente per limiti miei, non sono sicuro di aver ben capito cosa abbia in mente, ma intendo approfondire perché il tema che Barca pone è assolutamente centrato.
La mia conclusione è che per tornare a crescere, e anche solo per evitare quegli esiti catastrofici di cui tu parli, dobbiamo fare tutte le cose che ho qui sommariamente citato. Dobbiamo riuscirci e la risorsa essenziale per riuscirci è il Partito Democratico, un bene prezioso, uno straordinario contenitore di donne e uomini onesti che sentono di avere una responsabilità vera verso la collettività. Dato il punto di partenza del paese, dopo il rovinoso fallimento politico di Monti e il successo di Grillo, occorrono energia e fibra morale straordinarie, una grande voglia di cambiare, una sconfinata ambizione.
Giampaolo Galli