Sono passati già più di 100 giorni dall’attivazione dell’Articolo 50 dei Trattati che ha fatto scattare il periodo transitorio di due anni prima dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, cioè Brexit. Entro il 29 marzo del 2019 vi dovrebbe dunque essere un accordo completo con l’Unione europea.
Nel frattempo molta acqua è passata sotto i ponti del Tamigi. Le elezioni politiche hanno visto la vittoria dei conservatori, ma solo di stretta misura e senza la garanzia di una maggioranza assoluta in Parlamento. Molti osservatori hanno interpretato il voto anche come un messaggio al governo sulla sua strategia su Brexit. I due principali partiti hanno condotto una campagna elettorale senza mettere in discussione il risultato del referendum, ma all’interno di ciascun partito le posizioni sono molto diverse. Il governo tentenna e stenta a delineare una strategia precisa nei negoziati appena avviati. L’incertezza sotto il cielo di Londra è grande, e questo ovviamente rischia di influenzare negativamente le decisioni delle imprese.
La settimana scorsa, la Confederation of British Industry (Cbi), l’equivalente della Confindustria nel Regno Unito, ha esplicitato proposte su Brexit che sembrano molto promettenti. Il titolo della loro presentazione alla London School of Economics era “Eyes wide open”, ovvero occhi spalancati. Anche se questa non era l’intenzione, il titolo suggerisce il ben noto fenomeno di paralisi che i cervi soffrono quando vengono abbagliati dai fari delle autovetture: non sanno che fare e quindi non fanno nulla. In effetti, il governo britannico sembra ancora paralizzato dalla Brexit.
La Cbi sta facendo lobbying per far sì che venga presa rapidamente una decisione a favore di una transizione morbida per un periodo tanto lungo quanto sarà necessario per l’accordo finale tra il Regno Unito e l’Unione europea, un processo che potrebbe durare molti anni e andare oltre il 2019 e anche oltre le prossime elezioni politiche del 2022. In questo periodo di transizione, tutto rimarrebbe invariato e il Regno Unito avrebbe pieno accesso al Mercato unico e all’Unione doganale. Si eviterebbe ogni potenziale difficoltà che l’incertezza, o un’attesa troppo lunga, potrebbero provocare per l’economia britannica (e in misura minore per quella europea). In questo senso si giustifica il desiderio di costruire “un ponte” che favorisca un passaggio indolore verso l’accordo finale, al contempo rispettando la volontà popolare espressasi nel referendum.
Ma la politica si è posta subito di traverso. Infatti, per accedere a questo periodo di transizione morbida e probabilmente lunga, il Regno Unito dovrebbe accettare, sia pur temporaneamente, il principio dell’Ue di libera circolazione delle persone. Questo è stato uno dei punti più controversi che ha spinto gli elettori britannici a votare per Brexit. Dovrebbe anche accettare l’arbitrato della Corte di Giustizia Europea in materia di trattati commerciali in caso di controversie. Ma anche questo punto era uno dei più discussi in base all’idea di riappropriarsi della sovranità nazionale. Peraltro, nel periodo transitorio, il Regno Unito avrebbe soltanto un potere limitato di influenzare la nuova legislazione europea. La proposta della Cbi implicherebbe un veloce accordo sulla “separazione”, ovvero la liquidazione dovuta per tutto quanto attualmente in corso, un costo per il Regno Unito che la Commissione europea ha quantificato in ben 100 miliardi di euro. L’accordo dovrebbe comprendere anche i diritti dei cittadini dei Paesi dell’Unione europea residenti nel Regno Unito e quelli dei cittadini britannici residenti nell’Unione europea.
È un boccone difficile da ingoiare per i Brexiters che hanno fatto campagna a favore di Brexit proprio su questi temi e che difficilmente accetterebbero di far entrare il Paese in un processo di transizione senza limiti temporali. Non stupisce dunque che alcuni ministri si siano subito affrettati a rigettare le proposte della Cbi.
Peraltro, l’accettazione di questo lungo periodo di transizione, che probabilmente si estenderebbe ben oltre i due anni previsti dai Trattati, richiederebbe l’approvazione all’unanimità da parte di tutti gli altri Paesi dell’Ue.
Il periodo di incertezza per i rapporti commerciali e di investimento tra le due aree e l’avvicinarsi della scadenza del 29 marzo 2019 potrebbero influire sulle decisioni e sulla fiducia delle imprese. Per il momento i cambiamenti nell’economia sono stati incrementali, ma il rischio è che si trasformino in un momento di discontinuità che sarebbe molto problematico per l’economia britannica e in parte anche per quella continentale.
Inutile citare le motivazioni macro o quelle micro — dalle possibili disfunzioni nella catena di fornitura, alla logistica o ai potenziali effetti di soglia di cambiamenti tariffari e di regolamentazione. L’effetto sarebbe negativo anche per gli interessi economici italiani.
L’impatto economico di Brexit potrebbe non essere rovinoso, se gestito bene da parte di tutti i policymaker europei. A tutt’oggi, la proposta della Cbi sembra essere l’unica ad avere un approccio pragmatico volto a minimizzare i rischi per l’economia.
Oggi, il governo britannico presenterà il Repeal Bill per tradurre in leggi nazionali quelle europee, e vi sarà una discussione molto accesa con l’opposizione. Sarà il primo importante passo formale dopo l’attivazione dell’Articolo 50. Ma la vera partita si giocherà sul processo di transizione. Anche l’Italia e le imprese italiane possono svolgere un ruolo importante per far sì che i pregiudizi ideologici vengano messi da parte a favore di un processo di separazione pragmatico e quanto più possibile indolore.