Per le modalità con cui, all’inizio del 2013, sono stato invitato a condividere l’attuale esperienza parlamentare, senza che nessuno mi abbia nemmeno chiesto di prendere la tessera del partito, io dovrei essere considerato come un “indipendente”, ossia uno da cui ci si aspetta che voti “secondo coscienza” e per il quale il precetto costituzionale di “assenza di vincolo di mandato” dovrebbe dispiegarsi appieno.
La realtà è che, forse con mia sorpresa, mi sono scoperto soldato leale, che discute nell’ambito del gruppo, ma in Aula vota secondo le indicazioni della casa. A scanso di equivoci, sono stato leale con Renzi, lo sono stato con Letta e persino con Bersani nei tormentati mesi post elettorali in cui egli tentò di dialogare con il Movimento 5S, che pure a me sembra un pericolo notevole per la Repubblica. La mia dunque è sostanzialmente una lealtà istituzionale, non personale.
Il motivo per cui sono leale è che credo che, pur fra gravi errori e ritardi, il Partito Democratico sia l’architrave della democrazia italiana e l’unico partito in grado di tirar fuori l’Italia da una crisi gravissima.
Al di là dei motivi sistemici e istituzionali per cui si può ritenere che la lealtà di gruppo sia normalmente il modo corretto di esercitare il mandato parlamentare, ritengo che ci siano motivi di eccezionalità della situazione dell’Italia che giustificano appieno questa scelta.
Penso che l’Italia sia su un crinale. Può uscire dalla crisi facendo leva sulle sue straordinarie energie imprenditoriali. Ma può anche precipitare in un baratro tremendo, ben peggiore di quanto abbiamo visto fino ad ora. La Grecia sta lì a indicarci cosa potrebbe succedere se sbagliassimo politiche.
Per me questo è il punto chiave, dal quale dipendono le prospettive di sviluppo del Paese e la stessa tenuta delle sue istituzioni democratiche.
Alcuni analisti ci consolano con la considerazione che l’Italia ha una struttura economica e industriale ben più solida di quella della Grecia, il che è vero e dimostra che abbiamo tutte le potenzialità per uscire dalla crisi. Ma non dobbiamo illuderci: ciò non ci mette affatto al riparo da una crisi finanziaria, qualora si fermasse il processo riformatore in atto oppure si consolidassero le prospettive di successo politico di movimenti populisti. Anzi, una crisi che colpisse l’Italia avrebbe conseguenze più gravi di quella ha colpito la Grecia perché l’Italia è “troppo grande per essere salvata”. Nessun gruppo di paesi (Usa, Cina, UE, Brics) sarebbe in grado di comprare tutto o quasi tutto il debito pubblico italiano, così come è stato fatto con la Grecia.
Il fallimento di uno Stato, di una grande democrazia di massa, è un fatto sconvolgente di cui non abbiamo esperienza in epoca moderna.
Ci muoviamo dunque su un terreno inesplorato su cui non è facile utilizzare esperienze passate per indicare l’ordine di grandezza del pericolo. Ma sappiamo che un fallimento dell’Italia o, il che è sostanzialmente equivalente, una sua uscita dall’euro avrebbe conseguenze di primo piano sulla stessa sopravvivenza dell’Unione Europea e sulle prospettive dell’intera economia mondiale.
Comporterebbe per l’Italia sofferenze sociali, caos economico, finanziario e politico; ciò che il Presidente Napolitano definì nel 2013 con termini come “esiti irrecuperabili” o “rischi fatali”.
Rispetto al 2013 alcune cose sono migliorate, sia in Europa che in Italia, ma altre – anche su questo è bene essere chiari – sono decisamente peggiorate. E’ peggiorata la situazione sociale dell’Italia perché, malgrado la ripresa in atto, abbiamo avuto un altro anno e mezzo di recessione. E’ peggiorato il quadro internazionale con un aggravamento delle tensioni politiche e militari nelle principali aree da cui l’Italia si approvvigiona di energia (Libia, Iraq, Russia, Ucraina).
Infine l’ipotesi di euro exit è stata messa ufficialmente sul tavolo nel corso della crisi greca. Oggi è più difficile di due anni fa essere sicuri che l’euro possa sopravvivere. Nessuno è peraltro riuscito a individuare un piano per uno “scioglimento cooperativo” dell’Unione Monetaria, che non comporti la chiusura delle banche, fallimenti a catena, caos.
Se questo è il quadro, esistono due strade possibili.
Una è quella di proseguire con grande determinazione sulla strada delle riforme strutturali, quelle che sta portando avanti l’attuale governo. Pur rispettando le sensibilità di ciascuno, su queste riforme è difficile vedere motivi veri di divisione nel PD dal momento che, al di là della diversa narrazione, esse sono in sostanziale continuità con quelle attuate o tentate dal governo Letta che ha avuto l’appoggio dell’intero Partito Democratico e della sua attuale minoranza.
L’altra strada è quella che, con coerenza analitica, ma poco senso responsabilità, portano avanti i noeuro, dentro e fuori il nostro gruppo. E’ difficile essere contro il Jobs Act e la Buona Scuola e desiderare di rimanere dentro l’euro. Su questo, credo che abbiano ragione colleghi come Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre. Se si è contro riforme come queste è ragionevole essere anche contro l’euro. Non perché – aggiungo io – l’uscita dall’euro risolva qualsivoglia problema, ma perché ci consentirebbe di fallire senza provocare eccessive conseguenze sul resto del mondo. E quindi il resto del mondo ci lascerebbe un po’ più liberi di farci male da soli.
In questo quadro, segnato da grandi potenzialità ma anche grandi rischi, la politica e l’informazione in Italia costituiscono una straordinaria cacofonia. Chiunque ha titolo non solo per criticare il governo, il che è normale, ma per sbeffeggiarlo; chiunque ha la ricetta magica per risolvere i problemi. I talk show danno l’immagine drammatica e sbagliata di un paese che non ha speranze. Le idee più strampalate hanno diritto di cittadinanza tanto quanto quelle più ragionevoli.
Purtroppo le riunioni del gruppo parlamentare del PD non sono sempre molto meglio dei talk show che ammorbano la nostra opinione pubblica. Spesso siamo al di sotto di un livello minimo accettabile di rispetto reciproco e anche di rispetto istituzionale. Di fronte al Capo del Governo si possono esprimere, anche con asprezza, idee in dissenso, ma non ci si può girare dall’altra parte e andarsene come stavano per fare alcuni colleghi la sera della discussione sulla legge elettorale, dopo le dimissioni di Roberto Speranza.
Le divisioni del PD indeboliscono il governo, aumentano le chance di successo di formazioni politiche devastanti, contribuiscono a veicolare la percezione, che ha ovviamente effetti reali, di un paese sull’orlo del caos.
Per questi motivi, sento con particolare forza l’esigenza di essere leale e di fare squadra attorno al nostro governo e al nostro partito.
Per questi motivi credo che la via maestra per ricompattare il gruppo sia quella di ragionare.
Non posso credere che persone in buona fede che abbiano a riferimento l’interesse del nostro popolo, come credo siano la grande maggioranza dei nostri parlamentari, se correttamente informate, possano rimanere indifferenti rispetto a questi argomenti.
Come da anni ci spiega Michele Salvati, la politica economica si muove lungo un sentiero strettissimo. Mutatis mutandis, lo ha capito, con sei drammatici mesi di ritardo, anche Alexis Tsipras, che pure muoveva da idee ben più radicali di quelle di ciascuno di noi.
In conclusione, voglio dire oltre al bastone, che sin qui il PD non ha mai usato, e alla carota – questa invece ampiamente utilizzata – c’è anche il ricorso alla ragione. A patto di dirci le cose come stanno.
Ovviamente, nello statuto o nella sua interpretazione, occorre definire una gradazione di interventi. Vi sono alcune aree in cui la libertà di coscienza si deve poter esprimere. Non tutti i provvedimenti di cui discutiamo e su cui votiamo hanno i risvolti cruciali e potenzialmente drammatici di cui ho cercato di dar conto. Alcuni invece, ad esempio quelli su cui il governo appone la fiducia, comportano, in caso di spaccature, rischi seri per la credibilità del PD e del governo; su questi è difficile rimanere sostanzialmente inerti, come per lo più si è fatto sino ad oggi.
Giampaolo Galli