Al di là dei fattori contingenti, le organizzazioni delle imprese, a cominciare da Confindustria, non possono non essere dalla parte del cambiamento promosso da Matteo Renzi. La ragione è che Renzi ha ingaggiato una lotta senza quartiere contro i due grandi nemici delle imprese, la burocrazia e le tasse. Si può legittimamente dubitare della capacità del governo di condurre in porto questo programma. Ma siamo solo alle prime battute e un giudizio sarebbe prematuro. Tra l’altro, per ora l’unico atto concreto del governo è il decreto Poletti che trova il pieno consenso delle imprese, dimostra coraggio e capacità di sfidare vecchie logiche conservatrici e vecchi tabù.
Il fatto assolutamente nuovo di questa congiuntura è che nelle linee di fondo il programma enunciato da Renzi va incontro anche alle richieste che sono venute dal mondo sindacale. Se c’è qualcuno che ha titolo di lamentarsi per i comportamenti della “strana coppia Squinzi- Camusso”, questo qualcuno è Enrico Letta non certo Matteo Renzi. Per quanto corta sia diventata la nostra memoria nell’era dei social network, è impossibile dimenticare che poche settimane fa sia Squinzi che Camusso e gli altri leader sindacali criticarono pesantemente la legge di stabilità Letta-Saccomanni come troppo timida, insufficiente, da bocciare. Un giudizio severo accolse altresì l’emendamento su spending review e cuneo fiscale: si disse che non era sufficientemente determinato nel devolvere tutti proventi dei tagli di spesa a riduzione del cuneo fiscale. Enrico Letta fu costretto ad ammettere che 14 euro netti al mese erano troppo pochi. “In busta paga solo una mancia” era il leitmotiv che attraversava tutta l’opinione pubblica e tutta la stampa, da destra a sinistra, dal Giornale al Fatto Quotidiano. In questo clima, gli articoli di Giavazzi e Alesina sul Corriere della Sera, che per anni erano caduti nel vuoto, colpivano nel segno. Trovavano il sostanziale consenso delle organizzazioni imprenditoriali, della grande stampa e, forse sorprendentemente, anche dei sindacati. Diventavano il nuovo paradigma economico.
Ne prese atto la stampa internazionale che giudicò Letta un bravo diplomatico, ma non un uomo capace di fare i cambiamenti che erano necessari per l’Italia.
Fabrizio Saccomanni in vari documenti inviati al Parlamento segnalava che la spesa pubblica negli ultimi anni era già stata notevolmente ridotta ed ammoniva che tagli ulteriori erano possibili e auspicabili, ma solo attraverso un’accurata spending review la cui attuazione avrebbe richiesto svariati anni. Tant’è che la prima versione della legge di stabilità prevedeva tagli da spending pari a zero nel 2014, e a 3, 7 e 10 miliardi nei successivi tre anni, dal 2015 al 2017. Parole al vento, prediche inutili. La crisi economica e il vento dei populismi spazzavano via questi ragionamenti, che pure nessuno contestava nel merito analitico. La classe dirigente del paese sembrava sparita, gli economisti balbettavano. Nessuno era in grado di dire dove si sarebbero potuti trovare i 10 o i 30 miliardi che tutti dicevano essere necessari. Lo avrebbe fatto, qualche settimana dopo e in totale solitudine, Carlo Cottarelli. Dovremmo fargli un monumento, se non altro perché, dopo anni di chiacchiere, ha ridato un significato alle parole: ora sappiamo cosa vuol dire “taglio”.
Nella situazione che si era determinata fra gennaio e febbraio, il Partito Democratico e gli altri partiti della coalizione di governo non avevano scelta. Si stava concretizzando lo spettro di una sconfitta alle elezioni europee a favore di M5S e forse degli altri partiti che nel frattempo avevano cominciato a cavalcare sentimenti anti euro, come è accaduto domenica scorsa in Francia. L’alternativa era Renzi. E Renzi non poteva che partire da dove Letta aveva fallito: non 14 ma 85 euro in busta paga. Lo sta facendo. E per farlo deve realizzare, entro maggio, una operazione ciclopica di tagli di spesa, mai visti prima nella storia delle Repubblica.
Tutti coloro che hanno criticato Letta per eccesso di timidezza, ora non possono che sostenere il tentativo di Renzi. Ha poco senso dire ora che è impossibile trovare le coperture o che i tagli di spesa saranno recessivi. Andava detto prima. A maggio si capirà se l’operazione sarà riuscita, ossia se gli 85 euro saranno in busta paga, e se il paziente sarà ancora vitale dopo draconiani tagli di spesa. Se l’esito fosse negativo non avrebbe senso prendersela con Renzi. Renzi è figlio dell’epoca che stiamo vivendo e la sta interpretando al meglio. Un po’ tutti lo abbiamo invocato. Il suo fallimento sarebbe il fallimento di tutta o quasi tutta la classe dirigente di questo paese o di quel poco che di essa ancora rimane. Alcuni economisti, assai pochi – e fra questi, con molta coerenza, Stefano Fassina – pensano che l’operazione farà danni. A questi economisti e tutti i parlamentari che ne condividono l’analisi mi sento di dire: lavoriamo con spirito costruttivo, ossia per fare i tagli giusti, non per impedire l’operazione. Poter dire domani “l’avevo previsto” sarebbe ben magra consolazione.
Leggi dalla rassegna stampa di oggi: Accettare il cambiamento