Un recente rapporto della Corte dei Conti conferma i risultati che emergono dagli indicatori DESI della Commissione Europea secondo cui l’Italia si colloca al 24° posto, su 28 paesi dell’UE, per quello che riguarda la trasformazione digitale dell’economia e della società (cittadini, imprese, pubbliche amministrazioni). In questa nota, si analizzano gli indicatori DESI che riguardano specificamente l’attività delle pubbliche amministrazioni. Il fatto che l’Italia si collochi un po’ meglio nella graduatoria relativa alle pubbliche amministrazioni (18° posto) non è di particolare consolazione.
La nostra posizione nella classifica è vicina a quella di Bulgaria, Romania e Polonia; ben distanti rimangono i paesi più simili a noi per caratteristiche socioeconomiche come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. È peraltro difficile argomentare che le pubbliche amministrazioni siano più avanti del resto della società, specie se si ha presente la diffusione di fenomeni come l’home banking e le vendite online. Quasi nessuno dei progetti pilota che avrebbero dovuto fare da drivers della trasformazione digitale della PA ha avuto successo: si pensi in particolare alla vicenda dello Spid, ossia del tentativo, che è alla base di ogni architettura di modernizzazione della PA, di dare un’identità digitale ad ogni cittadino e alla scarsa diffusione – almeno per ora – del fascicolo sanitario digitale, che oltre ad essere una semplificazione, può salvare delle vite umane. In conclusione, la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione procede troppo lentamente.
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L’utilizzo delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione da parte delle pubbliche amministrazioni e dei cittadini rappresenta uno dei traguardi fondamentali delle politiche dell’Unione Europea per il progresso economico e per l’inclusione sociale e culturale. Nell’ambito del programma del “Digital Single Market”, la Commissione europea ha posto obiettivi ambiziosi, specie in termini di connettività a banda ultralarga (fino a 1 Gbps), per il 2025. Ponendo fine – almeno così si spera – ad una notevole confusione in materia di governance della trasformazione digitale, il governo Conte II si è dotato di un Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, Paola Pisano, che nei giorni scorsi ha fatto il punto sui lavori sin qui fatti dai commissari straordinari e dal Team per la digitalizzazione presso la Presidenza del Consiglio, nonché dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) e ha lanciato un ambizioso piano 2025, il cui primo obiettivo è quello di creare “una sola identità digitale per ogni cittadino”.[1] È significativo che ci si proponga oggi questo obiettivo, indubbiamente fondamentale, dopo almeno vent’anni di tentativi falliti. In India questo obiettivo è già stato raggiunto per oltre un miliardo di persone.[2]
Ma a che punto è l’Italia con la digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni? E come essa contribuisce al più generale sviluppo digitale nel nostro paese?
A questa domanda è oggi possibile rispondere con una certa precisione grazie ad un indice prodotto dalla Commissione Europea (indice DESI: Digitalizzazione dell’Economia e della Società), ad un rapporto della Corte dei Conti[3] presentato il 26 novembre scorso alla Camera dei Deputati e ad una serie di iniziative private e pubbliche fra cui spicca il “Digital Italy Summit 2019” che si è tenuto a Roma il 26-28 novembre e a cui hanno partecipato quasi tutti gli attori, pubblici e privati, della trasformazione digitale in Italia.[4] Vi sono inoltre due ampie indagini dell’Istat sul tema.[5]
In questa nota, facciamo riferimento principalmente all’indicatore DESI, in quanto consente confronti puntuali con gli altri paesi europei. A differenza di quanto fa il rapporto della Corte dei Conti, che considera tutte le dimensioni dell’indice DESI, qui ci soffermiamo sugli specifici indici che riguardano il funzionamento delle pubbliche amministrazioni. Non possiamo però non partire dalla conclusione del rapporto della Corte dei Conti che dipinge un “quadro non confortante della Pubblica Amministrazione italiana”. La Corte stima in 5,8 miliardi l’anno la spesa pubblica per l’informatica pubblica e rileva un utilizzo inefficiente delle risorse. In particolare, la Corte osserva che le procedure di gara per la committenza pubblica possono durare da “un minimo di 11 a un massimo di 24 mesi”;[6] questi tempi non consentono di tenere il passo con il dinamismo che caratterizza il mercato informatico.
L’indice DESI, preso in considerazione nel rapporto della Corte, si compone di cinque dimensioni ponderate come evidenziato nella Tavola 1. La prima dimensione misura la diffusione dell’infrastruttura a banda larga e la sua qualità, la seconda e la terza misurano rispettivamente le competenze digitali da parte dei singoli cittadini e l’utilizzo medio di internet, la quarta misura la dimensione del commercio elettronico e più in generale la digitalizzazione delle imprese, la quinta ed ultima – quella che qui ci interessa – misura il grado di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione – punto su cui presteremo particolare attenzione nella nota. Ogni singola dimensione è a sua volta composta da diverse variabili, come esemplificato nella seconda colonna della Tavola 1.
Tav. 1: Composizione indice DESI e posizione dell’Italia nella graduatoria |
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Principali dimensioni |
Variabili dell’indicatore |
Percentuale di ponderazione |
Posizione graduatoria 2019 |
1 – Connettività |
Numero di nuclei familiari che hanno accesso a connessioni a banda larga, copertura 4G, predisposizione al 5G (etc…) |
25% |
19° |
2 – Competenze digitali |
Laureati in materie ICT, individui con competenze informatiche superiori alla media, impiegati nel settore ICT (etc…) |
25% |
26° |
3- Utilizzo di internet |
Individui che non hanno mai utilizzato internet, frequenza di utilizzo in base ad attività sul web (news, banking, shopping) (etc…) |
15% |
25° |
4 – Digitalizzazione delle imprese |
Abilità di vendita online da parte di PMI, aziende che utilizzano social network (etc…) |
20% |
23° |
5 – Digitalizzazione dei servizi pubblici |
Utenti e-government, open data, individui che utilizzano il web per prescrizioni sanitarie (etc…) |
15% |
18° |
In linea generale, nel 2019 l’indice DESI complessivo vede il nostro Paese collocato al 24esimo posto in Europa, posizione praticamente invariata sin dal 2014 e dietro a Ungheria, Cipro e Slovacchia (si veda Figura 1). Peggio dell’Italia fanno la Polonia, la Grecia, la Romania e la Bulgaria. Le dimensioni che più penalizzano l’Italia nella graduatoria generale sono le competenze digitali (in cui l’Italia è al 26° posto) e l’utilizzo di internet (25° posto). Anche nelle altre dimensioni l’Italia non ha una buona posizione in graduatoria dal momento che si trova al 23° posto per la digitalizzazione delle imprese, al 19° per connettività e al 18° per la digitalizzazione dei servizi pubblici. Da questi confronti, sembrerebbe dunque che le pubbliche amministrazioni siano un po’ più avanti del resto della società e anche del sistema delle imprese. E tuttavia, anche per le pubbliche amministrazioni, l’Italia si colloca ben sotto la media europea; i paesi che fanno peggio dell’Italia sono i paesi dell’ex-Est Europa, la Grecia e, sorprendentemente, la Germania.
Gli indicatori della digitalizzazione dei servizi pubblici
La digitalizzazione dei servizi pubblici è il quinto indicatore (“Digitalizzazione dei servizi pubblici”, Figura 2) del DESI ed è a sua volta un indice composito.
La Tavola 2 mostra che l’indicatore è una media ponderata di due sotto-indici: “eGovernment” (che pesa per l’80 per cento), che include variabili come Utenti di eGovernment o il livello di completezza dei servizi online, ed “eHealth” (che pesa per il 20 per cento), che include variabili che riguardano il settore della sanità.
Gli indici di eGovernment
Il primo dei due sotto indici (eGovernment) è a sua volta una media ponderata di cinque indicatori. Il primo è definito “Utenti di eGovernment” e misura la percentuale di individui che negli ultimi 12 mesi hanno inviato moduli via internet alla PA (Figura 3). Questo indice vede l’Italia al penultimo posto in Europa con una percentuale del 37 per cento, a fronte di una media UE di 64 per cento; sotto l’Italia c’è solo la Grecia con il 36 per cento. Questo indicatore, come gli altri quattro, ha un peso del 20 per cento, ma per molti versi è quello decisivo perché ci dice che poche persone interagiscono con la PA via internet. L’utilizzo di internet è particolarmente basso fra gli anziani[7], ma è difficile attribuire grande peso a questo fattore dal momento che la struttura per età della popolazione italiana non è molto diversa da quella di vari altri paesi europei e che la rilevazione è fatta su persone di età compresa fra 16 e 74 anni. È possibile che il dato sia spiegabile con le scarse competenze digitali e lo scarso utilizzo di internet che caratterizzano in generale la società italiana (il secondo e il terzo indicatore della Tavola 1), ma è anche possibile che ci sia una causazione inversa. La scarsa fruibilità dei servizi della pubblica amministrazione non rappresenta un incentivo per le persone a utilizzare internet nei rapporti con la PA e ha effetti sull’utilizzo generale di internet. Si consideri che spesso le applicazioni della PA svolgono la funzione di drivers dell’intero processo di digitalizzazione, nel senso che le persone imparano a utilizzare internet perché scoprono che per alcuni servizi chiave dell’amministrazione (ad esempio le ricette mediche) i servizi online sono particolarmente convenienti e quindi finiscono per utilizzare internet anche per altre finalità.
È interessante confrontare questo dato (37 per cento) con il dato rilevato dall’Istat presso le amministrazioni stesse secondo cui già “nel 2017 la quasi totalità delle istituzioni pubbliche ha utilizzato il web per la gestione dei dati e l’erogazione dei propri servizi (87,9 per cento), tecnologia il cui utilizzo è ormai consolidato in tutte le realtà organizzative, con lievi ritardi tra i Comuni (87,4 per cento), le Comunità montane e le unioni dei comuni (85,8 per cento)”.[8] La differenza fra i due dati suggerisce che le amministrazioni dispongono di connessioni internet, ma le usano poco per fornire servizi utili ai cittadini.
I moduli precompilati
Il secondo indicatore riguarda i “Moduli precompilati”, a cui è attribuito un punteggio da 0 a 100 in funzione della quantità di moduli precompilati messi a disposizione dalle amministrazioni. Per questo indicatore, l’Italia si colloca al 19° posto, al di sotto della media europea. I moduli precompilati sono importanti perché ci dicono se i dati precedentemente raccolti dalla PA vengono utilizzati per evitare che il cittadino debba fornire gli stessi dati più volte alle pubbliche amministrazioni. Un punteggio basso di questo indicatore suggerisce che le diverse amministrazioni non sono in grado di incrociare i dati di diversi database in loro possesso. Ad esempio, non esiste oggi la possibilità di incrociare le banche dati anagrafiche per la patente di guida e per la carta d’identità[9], il che significa che il cittadino in possesso di una carta di identità deve fornire tutti i propri dati all’amministrazione per fare la domanda per la patente. Lo stesso vale per il passaporto, per il certificato di laurea richiesto dagli enti previdenziali per la domanda di pensione ecc. In sostanza, ancora oggi non è applicato il DPR n. 445 del 2000 (cosiddetta legge Bassanini) che vietava alle pubbliche amministrazioni di chiedere al cittadino informazioni che fossero già in loro possesso.[10] Il problema di fondo è quello identificato al primo punto del piano 2025 della Ministra Pisano: manca un modo univoco e universamente accettato per definire l’identità digitale delle persone e delle imprese. Negli anni novanta si pose il problema e si pensò che la diffusione del codice fiscale potesse consentire di superare il problema, poi si è tentato con lo Spid che però a tutt’oggi ha una diffusione ancora limitata: secondo i dati di monitoraggio forniti dal Team digitale presso la Presidenza del Consiglio, il numero di utenti dello Spid è in rapido aumento, ma a tutt’oggi si colloca poco sopra i 5 milioni.[11] Non è chiaro quali vantaggi ci siano per i fornitori del servizio (che è ovviamente gratuito per il cittadino) e neanche per gli utenti dal momento che quasi tutti i servizi della PA sono accessibili con metodi più semplici. Va inoltre rilevato che non si ha notizia di operatori privati (banking online, aerei, treni) che utilizzino lo Spid. Verosimilmente, l’Italia dovrebbe avere fatto qualche passo avanti negli ultimi anni con la diffusione delle dichiarazioni delle tasse precompilate.
Completezza dei servizi online
Sul terzo indicatore (“Livello di completezza dei servizi online”) siamo 12esimi e leggermente al di sopra della media UE (Figura 5). Questo indicatore quantifica in che misura è possibile comunicare informazioni alla pubblica amministrazione completamente online: la domanda è riferita a procedure comuni nella vita degli individui, come ad esempio la registrazione di un nuovo nato all’anagrafe, lo spostamento della residenza, il passaggio di proprietà di un’automobile. La questione è se questi servizi possono essere condotti a termine completamente online, senza doversi recare presso l’amministrazione competente. Su questo indicatore l’Italia ha fatto notevoli progressi negli ultimi anni. Va però precisato che l’indicatore si riferisce a quel sottoinsieme di servizi per i quali vi è la possibilità di un accesso online, altrimenti non si capirebbe come sia possibile che il punteggio dell’Italia sia tanto basso nell’indicatore circa l’utilizzo dei servizi delle pubbliche amministrazioni.
I servizi di eGovernment per le imprese
Il quarto indicatore misura la quantità di servizi digitali pubblici per le aziende e ci vede non fra i migliori, ma quasi in linea con la media europea (Figura 6). Va detto però che la media europea comprende i paesi dell’ex-Est Europa che sono quasi tutti al di sotto dell’Italia. Sotto l’Italia, in questo caso, ci sono anche la Germania, l’Olanda e il Belgio. L’indicatore, un indice da 0 a 100, si riferisce a servizi di base per le aziende come l’avvio di una nuova attività, la conduzione di normali “business operations” nel paese e fra paesi dell’UE. I servizi offerti tramite portali ricevono un punteggio maggiore, mentre ricevono un punteggio basso i servizi in cui viene offerta online solo l’informazione sulla procedura (tradizionale) da seguire.
Date le difficoltà nei rapporti con la burocrazia che lamentano le imprese italiane, il punteggio discreto su questo indicatore appare di non facile interpretazione. Una possibilità è che in Italia anche un piccolo progresso nei servizi digitalizzati rappresenti un grande passo avanti rispetto alla necessità di doversi districare nei meandri della burocrazia. Tuttavia, guardando alla fonte di questo indicatore (il rapporto preparato per la Commissione Europea chiamato “eGovernment Benchmark 2018”), si trova che l’analisi viene fatta attraverso il cosiddetto “mistery shopping”, ovvero persone appositamente formate per interrogare i siti della PA e simulare ciò che farebbe un imprenditore per portare a termine una certa operazione. Il lavoro – viene spiegato nel rapporto – richiede una collaborazione molto stretta con i rappresentanti di ciascuna delle 28 nazioni dell’UE. Queste persone vengono coinvolte all’inizio della ricerca per validare il campione di siti web da analizzare in ciascun paese e identificare le caratteristiche chiave dei diversi servizi; e alla fine del lavoro per validare e, se del caso, correggere i risultati. Come si vede si tratta di una procedura indubbiamente interessante, ma molto complessa che può dar luogo a risultati non facilmente confrontabili fra paesi.
Open data
Il quarto indicatore (“Open Data”) è quello in cui l’Italia si posiziona fra i paesi migliori (Figura 7). Questo indicatore prende in considerazione la quantità e la qualità di informazioni fruibili attraverso portali online per avere informazioni dettagliate sulle pubbliche amministrazioni. Ad esempio, quanto spende il mio comune per le spese di cancelleria?[12] Più analiticamente, l’indicatore è composto da quattro sottoindici: la presenza di politiche volte a obbligare le amministrazioni ad essere trasparenti, l’esistenza e sofisticazione di portali di “open data”, l’impatto degli open data su quattro diverse dimensioni (politica, sociale, ambientale ed economica), la facilità di accesso agli open data e la chiarezza dei metadati che li accompagnano. Guardando anche in questo caso alla fonte (sempre il rapporto “eGovernment Benchmark 2018”), si trova che il dato per l’Italia è disponibile solo per il 2019 e non per gli anni precedenti. Si può ritenere dunque che vi sia stato un forte progresso dovuto all’approvazione, nel 2016, del decreto Madia, cosiddetto FOIA (Freedom of Information Act) italiano (dl 97/2016, pubblicato in GU l’8 giugno 2016), in base al quale tutti i cittadini hanno la possibilità di “richiedere senza motivazione alle pubbliche amministrazioni documenti e atti in loro possesso, tranne nei casi in cui l’istanza abbia ad oggetto documenti coperti da segreto di Stato e limiti previsti da norme particolari, come nel caso di dati sensibili”. La stessa legge obbliga le amministrazioni a mettere in una specifica sezione del proprio sito chiamata “Amministrazione trasparente” una serie di dati, tra cui quelli dei singoli pagamenti effettuati. A seguito dell’approvazione di questa legge, vi sono stati sforzi importanti per indurre le amministrazioni a dotarsi di sezioni dedicate a fare trasparenza sugli atti di competenza.
I ricercatori dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani fanno un uso molto intenso degli open data delle pubbliche amministrazioni e possono suggerire che effettivamente sui siti delle amministrazioni si trova una grande mole di dati, ma questi dati non sono certamente facilmente utilizzabili. Al riguardo, vi sono notevoli margini di miglioramento persino per un ente come l’Istat che pure ha come sua missione quella di mettere i dati a disposizione del pubblico ed è certamente all’avanguardia nel panorama italiano: è infatti esperienza comune dei ricercatori in campo economico e sociale che è più agevole trovare i dati sull’Italia nei siti dell’Eurostat o del FMI che in quello dell’Istat.
La sanità digitale
Come si è detto, l’indicatore “Servizi pubblici digitali” comprende, con un peso del 20 per cento, l’indice eHealth che a sua volta è la media semplice di tre indici. Il primo è definito “Servizi di sanità digitale” e misura la percentuale di individui fra 16 e 75 anni che hanno utilizzato servizi di sanità digitale (Figura 8). Tale percentuale in Italia è del 24 per cento, maggiore della media europea (18 per cento), ma molto al di sotto di paesi come la Finlandia e la Danimarca che stanno fra il 40 e il 50 per cento. Per interpretare correttamente questo indicatore, va detto che esso coglie anche quella parte di persone che si limitano a fare ricerche online in materia di sanità: esso quindi non afferisce, se non indirettamente, al grado di efficienza digitale della sanità pubblica. I due successivi indicatori si riferiscono invece direttamente a questo tema. L’indice “Scambio di dati medici” indica la percentuale di medici che scambiano informazioni mediche con ospedali ed altri medici in via telematica. Tale percentuale è al 30 per cento in Italia, non molto sotto la media europea (43 per cento). Va comunque rilevato che la distanza dai paesi meglio organizzati è notevole: la Danimarca sta quasi al 100 per cento, seguita dalla Svezia (81 per cento) e dal Regno Unito (70 per cento). In teoria, la realizzazione del fascicolo sanitario elettronico (FSE), previsto dal D.L. 179 del 2012, avrebbe dovuto risolvere il problema e portare anche l’Italia in prossimità del 100 per cento. Ma a tutt’oggi la diffusione di questo strumento, essenziale per la stessa sicurezza delle persone (in particolare quando ricoverate d’urgenza in pronto soccorso), è lungi dall’essere operativo, anche perché non è garantita ancora la interoperabilità fra le diverse regioni che pure era prevista da una circolare del 1 agosto 2017 dell’AgID. All’evento del 29 ottobre scorso del ForumPA dedicato alla sanità è emerso che solo il 7 per cento dei cittadini utilizza il FSE e il 47 per cento non sa nemmeno cosa sia.
L’altro indice rilevante per capire il grado di digitalizzazione dell’offerta sanitaria è definito “Ricette digitali” e misura la percentuale di medici che utilizzano ricette digitali. Questa percentuale in Italia è del 32 per cento a fronte di una media europea del 50 per cento. Va osservato che molti paesi, in particolare del Nord Europa, ma anche l’Ungheria e l’Estonia sono prossimi al 100 per cento. Inoltre, l’esperienza insegna che in genere i medici di base in Italia compilano la ricetta elettronica, ma non la mettono a disposizione del paziente o della farmacia indicata dal paziente, il quale deve comunque recarsi fisicamente dal medico. Peraltro, il Garante della Privacy, nella sua relazione annuale presentata il 28 giugno scorso in Senato, ha ricordato che “il medico prescrittore rilascia all’assistito il promemoria cartaceo della ricetta elettronica secondo il modello riportato nel disciplinare tecnico Allegato 2…”. Basta questo per capire perché non decolli uno strumento che sarebbe peraltro molto utile per verificare l’appropriatezza delle prescrizioni e fornire indicazioni preziose circa la migliore allocazione delle risorse del servizio sanitario nazionale.
Il digital divide
I dati che abbiamo mostrato sin qui nascondono rilevanti differenze fra regioni e, soprattutto, fra grandi e piccoli centri. Secondo l’ultima rilevazione dell’Istat relativa al 2019, le famiglie che dispongono di un accesso alla banda larga sono il 74 per cento in Italia, ma salgono al 77 per cento in Lombardia e scendono al 72 per cento in Campania e al 67 per cento in Calabria e Sicilia; la Sardegna, con il 75,6 per cento, si colloca fra le regioni meglio servite dalla banda larga. Anche per quanto riguarda l’utilizzo di internet (“nei 3 mesi precedenti l’intervista”), vi sono differenze fra regioni. L’Italia si colloca al 67,9 per cento, con valori leggermente superiori, attorno al 70 per cento, nelle regioni del Nord e in Lazio e valori più bassi, sino al 60 per cento, nelle regioni del Sud.
Uno studio prodotto dal Politecnico di Milano riguarda specificamente la digitalizzazione degli enti locali – sono stati analizzati più di 800 comuni – e mostra un paese a due velocità.[13] Da un lato vi sono i comuni di medie e grandi dimensioni (generalmente sopra ai 40 mila abitanti) che mediamente hanno digitalizzato il 40 per cento dei servizi ai cittadini e l’80 per cento dei servizi alle imprese.[14] Dall’altro vi sono i comuni di piccole dimensioni, tipicamente sotto i 5 mila abitanti, che si fermano al 3 e al 16 per cento rispettivamente per i servizi ai cittadini e alle imprese. Anche in questo caso, è plausibile che una gestione maggiormente coordinata aiuterebbe nel processo di innovazione digitale della pubblica amministrazione. Il risultato è che in pochi, pochissimi, utilizzano servizi pubblici digitali – siamo praticamente ultimi in EU – e la ragione è da trovarsi non solo nella bassa domanda, nonostante sia vero che l’utilizzo di internet è oltremodo basso in Italia, ma anche nella scarsa qualità del servizio pubblico, nella dematerializzazione dei documenti piuttosto che una vera e propria digitalizzazione dei processi, nella scarsa capacità di controllo della spesa per l’informatica da parte della PA, insieme ad uno scarso coordinamento a livello nazionale.
L’instabilità della governance della digitalizzazione
Tutti questi fattori di criticità sono analizzati con dovizia di particolari nel capitolo del rapporto della Corte di Conti dedicato alla governance della informatizzazione che dà conto della incredibile instabilità della normativa e dell’architettura del sistema, al punto che “Gli sforzi messi in campo hanno portato sinora più ad un ripetuto cambiamento di organizzazione delle varie strutture centrali preposte che a effetti rilevanti. Ad oggi i risultati delle azioni di coordinamento appaiono limitati, dovendosi registrare frammentazione degli interventi, duplicazioni, scarsa interoperabilità e integrazione dei servizi sviluppati. Ciò anche con riferimento al monitoraggio della spesa, dell’attività contrattuale, dei risultati conseguiti e dei servizi resi”.
Digitalizzazione e controllo della spesa pubblica
Nel 2016 l’AgID stimava risparmi nell’ordine di 840 milioni di euro solamente per la razionalizzazione dei centri di elaborazione dati.[15] Risparmi ulteriori potrebbero derivare da un sistema di eProcurement (la digitalizzazione delle gare di appalto attraverso una centrale operativa unica) più efficiente[16] e soprattutto dallo switch-off, ossia l’erogazione dei servizi esclusivamente attraverso canali digitali e dalla conseguente dematerializzazione dei processi di acquisto. Collateralmente, una maggiore digitalizzazione e automatizzazione dei processi della PA risulterebbe in un alleggerimento del personale della PA. Nella realtà, digitalizzazione e controllo della spesa sono in Italia due processi totalmente separati. Raramente si cita la digitalizzazione come fattore che può consentire al tempo stesso di rendere migliori servizi ai cittadini e di contenere l’aumento della spesa pubblica. Da quest’anno, il turnover consentito nelle pubbliche amministrazioni torna al 100 per cento; se da un lato questa misura è comprensibile dopo anni di blocco che hanno prodotto un notevole aumento dell’età media dei pubblici dipendenti, dall’altro essa segnala che, a differenza di ciò che sta succedendo nel settore privato, si rinuncia a utilizzare la digitalizzazione per ridurre il fabbisogno di personale.
In sintesi
L’analisi sin qui svolta, sulla base degli indicatori specifici relativi alla digitalizzazione della PA, conferma il giudizio non confortante che emerge dalla recente analisi della Corte dei Conti. L’Italia si colloca al 24esimo posto nell’indice generale sulla digitalizzazione dell’economia e della società. Il fatto che si collochi un po’ meglio nella graduatoria relativa al eGovernment (18° posto) non è di particolare consolazione. È infatti difficile argomentare che le pubbliche amministrazioni siano più avanti del resto della società, specie se si ha presente la diffusione di fenomeni come l’home banking e le vendite online. Quasi nessuno dei progetti pilota che avrebbero dovuto fare da drivers della trasformazione digitale della PA ha avuto successo: si pensi in particolare alla vicenda dello Spid, ossia del tentativo, che è alla base di ogni architettura di modernizzazione della PA, di dare un’identità digitale ad ogni cittadino e impresa, e alla scarsa diffusione – almeno per ora – del fascicolo sanitario digitale, che oltre a essere una semplificazione, può salvare vite umane. In ogni caso, la nostra posizione nella classifica DESI è vicina a quella di Bulgaria, Romania e Polonia; ben distanti rimangono quei paesi più simili a noi per caratteristiche dimensionali e socioeconomiche come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Come affermato dal Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale sono scarsi i risultati nella razionalizzazione delle infrastrutture digitali: “I data center – o sedicenti tali – delle amministrazioni restano troppi e spesso di infima qualità”.[17] Riflesso di questo è la scarsa interoperabilità dei sistemi informativi, segnalata – almeno parzialmente – anche dal livello dei “moduli precompilati” del DESI.
Si può dunque dire che, malgrado le grandi innovazioni che stanno emergendo nel panorama internazionale (Intelligenza artificiale, machine learning, blockchain, connessioni 5G ecc.) e nonostante gli sforzi messi in atto dai tanti (troppi!) soggetti preposti allo sviluppo digitale, nella nostra pubblica amministrazione prevalga ormai uno stato di quasi rassegnazione.
A queste considerazioni si deve aggiungere che i confronti sin qui fatti sono tutti con altri paesi europei, ma è evidente che l’intera Europa è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Cina. Lo è quantomeno come capacità di realizzare ricerca e sviluppare le tecnologie più innovative, in particolare in materia di connettività 5G e di applicazioni che tale tecnologia consente di sviluppare: 50 città cinesi sono già connesse in 5G e il 29 ottobre le tre principali aziende cinesi di telefonia mobile hanno lanciato cellulari connessi in 5G che sono stati acquistati lo stesso giorno da 10 milioni di cinesi.[18]
Per l’Italia, le speranze sono ora riposte nella decisione di attribuire il tema dell’innovazione a uno specifico ministro e al piano 2025 lanciato nei giorni scorsi dal governo.
[1] “2025, Strategia per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione del Paese”. https://innovazione.gov.it/assets/docs/MID_Book_2025.pdf.
[2] Così riporta Roberto Masiero, Presidente di Innovation Group. Si veda: https://www.theinnovationgroup.it/archivio_il-caffe-digitale/il-caffe-digitale-2019/ministro-paola-pisano-presentato-suo-piano-nazionale-dellinnovazione-2025/?lang=it.
[3] “Referto sull’informatica pubblica” presentato il 26 novembre 2019 e reperibile sul sito: www.corteconti.it/Download?id=64ba98bf-b6b5-4a67-b132-2cb87010ed36.
[4] “Digital Italy Summit” organizzato da The Innovation Group, in collaborazione con Anitec-Assinform, Confindustria Digitale, Fondazione Astrid e Gruppo Maggioli. https://www.theinnovationgroup.it/events/digital-italy-summit-2019/?type=2&lang=it
[5] Istat: “Cittadini e ICT” pubblicato il 18 dicembre 2019 e il “Censimento permanente delle istituzioni pubbliche” pubblicato il 17 dicembre 2019.
[6] Pagina 180 del rapporto sopracitato.
[7] Il comunicato Istat del 18 dicembre ci informa che “La quasi totalità dei ragazzi di 15-24 anni naviga in Rete (oltre il 90 per cento), mentre tra i 55-59enni la quota di internauti scende al 72,4 per cento e arriva al 41,9 tra le persone di 65-74 anni”.
[8] Istat: “Censimento permanente delle istituzioni pubbliche” pubblicato il 17 dicembre 2019.
[9] Così argomenta Franco Massi (segretario generale della Corte dei Conti) durante la conferenza di presentazione del referto sull’informatica pubblica. Disponibile al link: www.youtube.com/watch?v=TKpmiy443F4.
[10] G.U. n. 42 del 20 febbraio 2001, s.o. 30/L.
[11] Si veda al sito: https://avanzamentodigitale.italia.it/it.
[12] A tal riguardo e a titolo esemplificativo è disponibile un portale, sui dati di cassa SIOPE, dal quale è possibile conoscere le uscite di cassa degli enti locali riguardo ad alcune specifiche funzioni di spesa: http://soldipubblici.gov.it/it/home.
[13] Osservatorio sull’Agenda Digitale contenuto nel volume “Italia digitale: la “macchina” è pronta a correre?” al sito: https://www.osservatori.net/it_it/digitalizzazione-comuni-italiani-servizi-webinar/.
[14] Ad esempio, tra i servizi al cittadino vengono inclusi: richiesta pass disabili, richiesta cambio residenza, iscrizione asili e scuole comunali, denuncia tassa sui rifiuti. Per quanto concerne le imprese, sempre a titolo esemplificativo, vengono inclusi servizi tra cui: richiesta occupazione suolo pubblico, richiesta autorizzazione eventi, segnalazione certificata di inizio attività (SCIA).
[15] Si veda pagina 225 del rapporto elaborato dalla Corte dei Conti, reperibile al link: https://www.corteconti.it/Download?id=01f0cca3-8fae-4325-9dab-063f8a74b205.
[16] Nella fattispecie l’evoluzione verso la piattaforma “ComproPA”, ovvero un sistema associato di tutte le piattaforme telematiche di acquisto. Questo, oltre a garantire una maggiore trasparenza dei prezzi di acquisto, permetterebbe delle procedure di gara più celeri.
[17] A segnalarlo è Luca Attias, l’ultimo commissario straordinario per la trasformazione digitale della pubblica amministrazione. Qui l’articolo www.wired.it/internet/regole/2019/11/08/luca-attias-commissario-digitale/?refresh_ce=.
[18] Giovanni Amendola: “La competizione fra Cina, Usa e Europa nel 5G”, presentazione ad Astrid, 11 dicembre 2019.