Ci sono parecchie lezioni che si spera i populisti abbiano imparato dalla vicenda della manovra di bilancio. La prima è che è controproducente sfidare i mercati finanziari: i costi in termini di oneri sul debito pubblico, sfiducia nel sistema paese e recessione economica sono semplicemente proibitivi.
Dopo anni di retorica contro i governi proni ai mercati, anche i populisti si sono dovuti piegare. Sarebbe bello far capire che il “dominio dei mercati” non è una novità, c’è sempre stato per le nazioni indebitate e non è il risultato di moderne diavolerie come la globalizzazione e la finanziarizzazione. Come diceva l’ex premier svedese Göran Persson: una nazione indebitata non è mai libera. Sarebbe bello, ma forse è chiedere troppo.
La seconda lezione è che non ha senso sfidare l’Europa, perché l’Europa, con le sue regole più o meno belle, ci aiuta a metterci al riparo dalle dure reazioni dei mercati.
La terza lezione è che colpire la cosiddetta casta può far bene alla salute elettorale di qualcuno, ma non serve a nulla dal punto di vista dei conti pubblici. Lo sbandierato contributo sulle pensioni cosiddette d’oro, malgrado aliquote che una volta si sarebbero dette bulgare, darà un gettito netto di meno di 80 milioni di euro: un’inezia.
Dopo anni di demagogia contro la casta, si scopre dunque che c’è ben poco da spremere. Le decine di miliardi che avrebbero dovuto zampillare come fresca acqua di fonte dalla spending review del governo del cambiamento si sono ridotte a poche decine di milioni e qualche artificio contabile, per anticipare entrate e rinviare spese, “mantenendo comunque invariato – così recita il testo del governo – il totale della spesa nel tempo”.
La quarta lezione è che non esiste un popolo da compiacere. Esistono tanti popoli e se si vuole compiacere quella parte di popolo che vuole andare in pensione a 62 anni occorre colpire tante altre parti del popolo: ad esempio, coloro che hanno una pensione sopra i mille cinquecento euro lordi cui viene ridotta l’indicizzazione, con effetti questi sì piuttosto rilevanti – nell’ordine dei 1,2 miliardi a regime – sui conti pubblici.
È dunque demagogia, assai fastidiosa, quella di chi si autoproclama avvocato del popolo. Speriamo che le lezioni della vita inducano tutti a usare un linguaggio più rispettoso dell’intero popolo e non solo di una parte.