Secondo l’Osservatorio dei conti pubblici dell’Università Cattolica, diretto da Carlo Cottarelli, le misure previste dal cosiddetto contratto di governo sommerebbero a 108,7 miliardi nel migliore dei casi e a 125,7 nel peggiore; le coperture esplicitamente previste nel contratto non supererebbero i 0,5 miliardi.
Secondo Roberto Perotti, la dimensione delle manovre previste sarebbe maggiore: 170,5 miliardi fra maggiori spese e minori entrate, con coperture un po’ più corpose (1,5 miliardi), ma pur sempre del tutto insufficienti. La differenza fra le due stime dipende essenzialmente dal fatto che Cottarelli valuta il costo delle misure che i partiti hanno dichiarato di voler fare subito o quasi subito, mentre Perotti ne valuta il costo a regime. Si spiega così il fatto, ad esempio, che per Cottarelli il valore delle clausole di salvaguardia da disinnescare sia di 12,5 miliardi (il dato del 2019), mentre per Perotti è di 19 miliardi (il valore a regime, ossia dal 2020).
Il primo compito che dovrà affrontare la nuova maggioranza giallo-verde è quello di completare il DEF che, come noto, è stato lasciato incompiuto da parte del governo uscente. Dati i numeri di cui si è detto, riuscirà il nuovo ministro dell’economia a scrivere la parte programmatica del DEF in modo che esso non sia del tutto impresentabile in Europa? La risposta è che ciò è improbabile, ma forse non del tutto impossibile.
Supponiamo ad esempio che nel primo anno il governo si limiti a fare solo una parte delle manovre promesse, per un valore – poniamo – di 51 miliardi, il 3% del PIL. E supponiamo che, seguendo la letteratura keynesiana tanto apprezzata dai nuovi governanti, i nuovi tecnici del MEF mettano un moltiplicatore medio della manovra uguale 1, il che significa che il Pil aumenta anch’esso di 51 miliardi. Le entrate fiscali di competenza aumenterebbero di circa 22 miliardi e il disavanzo aumenterebbe solo di 29 miliardi rispetto al tendenziale, il che comporterebbe un deficit 2019 pari al 2,4% del Pil. Qualora questo non bastasse, la fantasia degli estensori del DEF potrebbe alzare il moltiplicatore a 2, il che, tenuto conto del maggior gettito fiscale, porterebbe il rapporto deficit/Pil a 1,2%. In questa seconda ipotesi, si potrebbe forse presentare un deficit inferiore al 3%, anche tenendo conto dei ritardi con cui il gettito di competenza si traduce in entrate effettive per lo Stato. In entrambi i casi, la maggior crescita del Pil porterebbe nel 2019 a una riduzione del rapporto debito/Pil rispetto al tendenziale previsto da Padoan.
Quello che non va in questo ragionamento è che il PIL reale dovrebbe crescere nel primo caso del 4,5% e nel secondo del 7,5%, numeri che sono del tutto fuori misura rispetto al potenziale produttivo dell’Italia e non tengono conto che ci vuole tempo perché le imprese adeguino la capacità produttiva. Inoltre, lo stimolo fiscale incide sul livello del Pil e non sul suo tasso di crescita, mentre il maggior deficit incide sul tasso di crescita del debito, il che significa che questa politica non è sostenibile. C’è da aspettarsi uno scontro molto duro con la Commissione Europea e prima ancora con l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, i cui componenti – è bene ricordarlo – non sono soggetti allo spoil system, a differenza del Ragioniere Generale dello Stato e degli altri dirigenti del MEF.
Giampaolo Galli