Il reddito di cittadinanza del M5S? Distruggerebbe il lavoro – con Yoram Gutgeld, Democratica, 18 gennaio 2017

Per capire cosa non va nel reddito di cittadinanza (RdC) proposto dal Movimento 5 Stelle e come esso distruggerebbe il lavoro nel nostro paese basta guardare la tabella in pagina. Vi sono riportate le somme che verrebbero erogate a famiglie con diversa composizione in base al ddl 1148/2013 del M5S. Ad esempio, una famiglia con 2 adulti e due ragazzi sopra i 14 anni avrebbe diritto ad un reddito di 2.030 euro netti al mese.

Nell’ultima colonna è riportato per memoria il reddito annuale lordo che un lavoratore dipendente dovrebbe guadagnare per avere un netto in busta corrispondente al RdC cui avrebbe diritto (33.850 euro nell’esempio fatto sopra). L’idea dei Cinquestelle è che lo Stato dovrebbe integrare il reddito di ogni famiglia fino al valore soglia indicato nella tabella.

C’è da restare sgomenti. È del tutto evidente che numeri così elevati producono formidabili incentivi perversi che tenderebbero a distruggere il lavoro e in particolare il lavoro regolare. Molte persone troverebbero conveniente rinunciare del tutto al lavoro. Con il RdC, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, che in Italia è già bassissima, sarebbe ulteriormente e drammaticamente scoraggiata.

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Un altro incentivo è quello a comparire come coppie non conviventi (o meglio, separate); come mostra la penultima riga della tabella, con questo espediente che già oggi tanti utilizzano per l’intestazione fittizia della prima casa, una coppia con due figli minori avrebbe diritto ad un reddito di 2.111 euro (35.780 lordi annui!) invece che 1.705. Ancora più importante è l’incentivo a far apparire i figli come indipendenti (basta che abbiano più di 25 anni o se minori di 25 che “non svolgano in modo esclusivo attività di studente”). Con due genitori separati e due figli indipendenti, si ha diritto a euro 3.248 al mese, circa 64.550 euro lordi.

Viene poi incentivato il sommerso. Una persona i cui guadagni siano, parzialmente o interamente, in nero avrebbe un reddito effettivo molto maggiore di una persona che lavori regolarmente. A questo si aggiunge la possibile collusione fra lavoratore e azienda (magari un’azienda di comodo, da cui una persona si fa assumere per sfuggire ai controlli) per definire uno stipendio molto basso, ad esempio 500 euro in chiaro (magari dichiarando un part-time) e 1.000 “fuori busta”, invece di 2.030: lo Stato ci mette la differenza (1.530 euro, sempre nell’ipotesi di una famiglia di 4 persone), il costo del lavoro per l’azienda è più che dimezzato e il reddito netto del lavoratore sale di ben 1.000 euro netti al mese.

Si può obiettare che lo Stato può mettere in piedi un sistema di controlli efficaci e che qualunque misura di sostegno alla povertà è soggetta ad abusi. Ne dubitiamo davvero: basta ricordare che in Italia sono irregolari il 16% degli occupati, che frodi come quella ipotizzata sopra possono forse essere contrastate per il lavoro dipendente, ma sono quasi incontrollabili per i 5 milioni di lavoratori autonomi, che al fisco risulta che in molti settori gli imprenditori guadagnano meno dei loro dipendenti e infine il fatto che in teoria anche la normativa sui sussidi di disoccupazione ha sempre previsto la sospensione del sussidio a chi rifiutava un’offerta di lavoro, ma nella realtà, per i motivi più diversi, questa normativa è sempre rimasta sulla carta. E se è vero che qualunque sussidio è soggetto ad abusi, va detto che questo lo è particolarmente perché non è legato al lavoro svolto in passato, non ha un limite temporale ed è soggetto a forme di condizionalità davvero molto deboli. Alcuni difetti “tecnici” potrebbero forse essere corretti, introducendo una serie di accorgimenti (relativi ad esempio agli immobili e ai beni durevoli posseduti) che sono presenti nel Reddito di Inclusione (REI) approvato dai governi Renzi e Gentiloni. Ma il vizio di fondo sta nel manico ed è un vizio irrimediabile: l’entità dei sussidi che vengono promessi (un multiplo di quelli del REI) è assolutamente al di fuori delle cose ragionevoli nel contesto dell’economia e della società italiana.

Diverse fonti (l’Inps in un’audizione al Senato del 9 giugno 2015 e, di recente, Massimo Baldini e Francesco Daveri su Lavoce.info del 12 gennaio) hanno chiarito che il costo per lo Stato del RdC proposto da 5 Stelle non sarebbe di 15 miliardi all’anno come era stato inizialmente ipotizzato, bensì di circa 30 miliardi.

Ma questi costi, pur raddoppiati rispetto alla stima iniziale, assumono che non cambino i comportamenti delle persone. Per avere un’idea di cosa potrebbe succedere basti considerare che in base ai dati Eurostat, sulla base dei quali sono stati fatti i conti, nel 2016 si trova sotto la soglia di povertà relativa (come definita nella nostra tabella) il 20,6% della popolazione residente, circa 12,5 milioni di persone.

Fa tremare i polsi la sola idea di mettere in piedi un mostro burocratico per evitare frodi in una popolazione tanto numerosa. In ogni caso, se si fa l’ipotesi che tutte queste persone riescano a “farla franca”, ossia a dichiarare redditi pressoché nulli, il costo per lo Stato lieviterebbe a 80 miliardi all’anno (una cifra vicina a quella calcolata qualche giorno fa da Yoram Gutgeld) nell’ipotesi che la famiglia media di questa popolazione sia di due persone (coefficiente 1,5) e a 122 miliardi all’anno, nell’ipotesi che queste famiglie riescano a “spacchettarsi” ai fini della percezione del sussidio.

Si dirà che queste sono ipotesi estreme e irrealistiche. Forse sì, perché è vero che non tutte queste persone riuscirebbero a mettere in atto tutti gli espedienti possibili, ma è anche vero che gli stessi incentivi perversi operano su tutto il resto della popolazione, ossia anche su chi ha redditi ben superiori alla soglia di povertà relativa, compresi i professionisti, i lavoratori autonomi e gli imprenditori, i cui coniugi e figli possono facilmente essere presentati come unità indipendenti. Basti pensare che al fisco risulta che ci siano ben 13 milioni di contribuenti che non raggiungono la soglia della povertà relativa (molti di quali in realtà guadagnano molto di più) e ben 10 milioni di adulti che non presentano la dichiarazione dei redditi; molti di questi sono familiari di persone abbienti.

Il punto chiave è che mille euro in più al mese o anche cinquecento sono un’attrattiva per chiunque.

Dunque il costo per lo Stato è potenzialmente illimitato. Ma non è tanto un problema di finanza pubblica e di coperture. Il problema è la distruzione dell’economia e delle sue basi materiali e anche morali, dal momento che il reddito verrebbe sganciato dallo sforzo individuale. Una calamità naturale, per quanto grave, non potrebbe fare danni più seri alla nostra società. Forse bisogna andare nel Venezuela di Chávez per vedere quali disastri si possono fare elargendo benefici spropositati. Per questi motivi, oltre che per la fondamentale differenza fra una spesa una tantum e una permanente, la difesa dei 5 Stelle (“In cinque minuti hanno trovato 20 miliardi per le banche!”) non sta né in cielo né in terra.

A scanso di equivoci, come hanno argomentano Massimo Baldini e Francesco Daveri su Lavoce.info del 9 gennaio, il reddito di dignità proposto da Silvio Berlusconi non sarebbe molto diverso e forse sarebbe anche peggiore del reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle.

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