In tutti i Paesi, la scelta dei vertici della Banca Centrale spetta al potere politico. Può non piacerci, ma è così ovunque. Si può, quindi, anzi si deve chiedere alla politica di trattare la questione con particolare attenzione, evitando inutili bagarre e tentazioni lottizzatrici. Ma non si capisce come si possa sostenere che la politica non debba occuparsi della questione. Negli anni settanta, James Tobin, un grande economista premio Nobel per l’analisi monetaria, diceva di guardare con sospetto al concetto di indipendenza della Banca Centrale, perché – diceva icastico: “Io credo nella democrazia”.
Oggi l’indipendenza delle banche centrali è un concetto largamente condiviso nel mondo perché si sono potuti toccare con mano i guasti prodotti dalla subordinazione alla politica. Ma questa condivisone non può spingersi fino a sostenere che la politica, che è comunque chiamata a fare le nomine, non possa dare giudizi sull’operato del banchiere centrale.
Detto questo, nella mozione sulla Banca d’Italia approvata martedì scorso alla Camera e nella discussione che ne è seguita ci sono aspetti che ci paiono assolutamente non condivisibili. Al di là dei pur rilevanti aspetti di metodo su cui tanto si è discusso in questi giorni, c’è un punto di sostanza che riguarda l’argomentazione di merito che è stata usata. Non basta dire, come si è detto, che qualcosa è andato storto in questi anni e dunque la responsabilità è della vigilanza.
Questo schema di ragionamento legittima la tipica pulsione populista contro tutto ciò che abbia a che fare con il cosiddetto establishment. Con la stessa logica, si potrebbe dire che tante cose sono andate storte in questi anni, nelle banche e altrove, e dunque la responsabilità è di chi ha governato. Se si porta la discussione su questo livello, come si può poi argomentare che le ragioni per cui tante cose sono andate male sono complesse e attengono a fattori in larga parte esogeni o preesistenti? Se non si tiene conto di questi fattori di complessità, presso la pubblica opinione prevarranno sempre le false ragioni dei populisti. Nell’appello dei 46 economisti pubblicato su questo giornale, si reputa “quantomeno infondata, sul piano fattuale e di teoria economica, l’opinione di chi cerca di attribuire ogni responsabilità alla Banca d’Italia per la mala gestione e il fallimento di alcuni istituti di credito”.
In questi anni di recessione le banche italiane sono andate in crisi, ma meno che altrove malgrado la caduta dell’attività produttiva sia stata in Italia più pesante e prolungata. I soldi pubblici spesi in Italia per salvare le banche (non i banchieri!) sono un’inezia rispetto a quanto è stato speso in altri paesi.
Secondo i dati Eurostat, a tutto il 2016 il costo dei salvataggi bancari è stato del 22% del Pil in Irlanda, del 11,3% in Portogallo, del 9,7% in Austria, del 7,2% in Germania, del 4,6% in Spagna, del 4,2% nel Regno Unito, del 4,5% nella media dell’Unione Europa. In Italia, il costo a quella data era dello 0,2% del Pil. Sebbene questo dato sia destinato ad aumentare nel corso del 2017 per via delle misure assunte per il Monte Paschi e per le banche venete, il costo rimarrà comunque contenuto nel confronto internazionale. E non c’è dubbio che la causa principale delle crisi bancarie sia la recessione economica, cui si sono aggiunti alcuni casi circoscritti di cattiva gestione.
La seconda causa delle crisi bancarie è la forte interferenza politica nelle banche, consentita da una governance disfunzionale, un retaggio antico di un sistema bancario che era quasi interamente in mano pubblica. E su questo è difficile negare che la Banca d’Italia abbia bene operato tenendosi lontana dalla politica e promuovendo una radicale riforma delle banche popolari che con il sistema del voto capitario erano diventate uno dei luoghi privilegiati di potentati economici affini alla politica. Nel dibattito mediatico che è seguito alla mozione parlamentare sul governatore si sono sentite frasi del tipo: “fra i banchieri e i risparmiatori, si debbono scegliere i risparmiatori”. Questo è un torto grave che viene fatto alla Banca d’Italia, che è un’istituzione pubblica fatta di servitori dello Stato; non è una banca e non è privata, come sostengono i populisti, è il controllore delle banche. E Ignazio Visco impersona al meglio la figura del servitore dello Stato, come è generalmente riconosciuto.
Ciò non significa che la Banca d’Italia non possa aver fatto degli errori. Ma sicuramente ha agito in modo equilibrato, cercando di perseguire sempre l’interesse generale. Peraltro, è difficile dubitare che il Presidente della Riserva Federale Ben Bernanke non abbia fatto degli errori, ad esempio lasciando fallire Lehman Brothers nell’ottobre del 2008. Ciononostante, pochi mesi dopo il suo insediamento, nell’agosto del 2009, il Presidente Obama, dando un giudizio d’assieme del suo operato, lo confermò nella carica. Può essere un precedente su cui riflettere.
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@GiampaoloGalli