Secondo alcuni la riforma costituzionale che verrà sottoposta a referendum annullerebbe i progressi sin qui fatti in materia di federalismo fiscale. Questa tesi è sostenuta dal partito della Lega, ma è fatta propria anche da alcuni studiosi come Franco Gallo che ne ha scritto su questo giornale il 27 giugno scorso.
La visione opposta è quella sostenuta ad esempio da Sabino Cassese, secondo il quale l’intera proposta di riforma del Titolo V altro non fa che prendere atto della giurisprudenza della Corte Costituzionale degli ultimi quindici anni, definendo in modo più ordinato le competenze dei diversi livelli di governo ed evitando ulteriori contenziosi costituzionali che, come noto, nel recente passato hanno comportato ritardi e incertezze nell’attuazione delle norme, con conseguenze negative sui cittadini e sulle imprese. Questa visione appare particolarmente adatta a connotare la riforma nei suoi aspetti finanziari.
Essa è confortata da un utile studio della Corte dei Conti contenuto nel Rapporto 2015 sul Coordinamento della Finanza Pubblica. Considerando la spesa pubblica al netto di quella per prestazioni previdenziali e assistenziali, dal 2001 a oggi la componente a livello locale (Regioni, Province e Comuni) è una quota pressoché costante, attorno al 55%, del totale delle pubbliche amministrazioni. Né dopo il 2001 né dopo l’approvazione della legge Calderoli del 2009 – che aveva l’ambizione di attuare compiutamente il federalismo fiscale – si riscontra alcun trend sostanziale crescente o decrescente. Lo stesso vale per le entrate, la cui componente locale è rimasta pressoché invariata al 20 per cento del totale.
Questi dati si spiegano essenzialmente con la considerazione che, data la situazione del nostro debito pubblico, i governi centrali hanno sempre dovuto tenere sotto stretto controllo la finanza degli enti territoriali e sono riusciti a farlo, sia pure con forti rischi e al costo di formidabili tensioni, mettendo limiti, consentiti da specifiche sentenze della Corte, alle più svariate tipologie di spesa: consulenze, turn-over, stipendi pubblici e persino numero e retribuzioni dei consiglieri regionali ecc. L’unica voce che sembra essere in parte sfuggita al controllo, e nella quale si annidano sprechi e sperequazioni, è quella dei consumi intermedi, passati dal 23,6 per cento del totale della spesa locale nel 2001 al 29,5 nel 2014.
Un’altra spiegazione, non alternativa alla precedente, è che, al di là dei proclami, la legge Calderoli realizzava in realtà un notevole accentramento volto a ridurre – secondo i proponenti – gli sprechi delle regioni meridionali, attraverso i costi e i fabbisogni standard. Questa idea è peraltro apparsa condivisibile al punto che è stata recepita nella riforma, diventando un precetto costituzionale.
Anche sulle entrate locali i governi hanno sempre esercitato uno stretto controllo, come dimostrano le alterne vicende dell’Irap, delle addizionali Irpef o dell’ICI-IMU-TASI. E anche qui le decisioni dello Stato hanno avuto il conforto di molte sentenze della Corte, la quale ha più volte affermato che nel quadro normativo attuale non esistono tributi che possano essere definiti “propri” delle regioni: nei fatti dunque esistono solo tributi istituiti e disciplinati da leggi dello Stato, la cui sola particolarità è che il loro gettito è attribuito alle regioni.
La conclusione è allora che con la riforma non muore il federalismo fiscale, ma si dà stabilità e certezza all’assetto attuale. Dal punto di vista economico, un federalismo più avanzato, richiederebbe condizioni che in Italia non si sono mai verificate, quali la piena e concreta attuazione di una clausola di non salvataggio, o no bail-out, degli enti in dissesto e la sostanziale rinuncia da parte dello Stato a definire standard minimi per le prestazioni omogenei su tutto il territorio nazionale, quali ad esempio i LEA in campo sanitario. In assenza di queste condizioni si generano problemi di deresponsabilizzazione, o azzardo morale, che portano alcuni enti a generare debiti che alla fine pesano sui cittadini dell’intero paese. Si creano altresì disomogeneità di trattamenti e di standard fra regioni che complicano la vita ai cittadini e alle imprese. Con la riforma questi problemi, sin qui evitati con una navigazione a vista che spesso ha messo in forse la stabilità dei governi, dovrebbero essere strutturalmente superati. In ogni caso, va ricordato che nulla impedisce allo Stato di definire, con legge ordinaria, ulteriori spazi di autonomia finanziaria a favore degli enti territoriali e che rimane la possibilità di attuare forme di federalismo differenziato a favore delle regioni con i conti in ordine, a conferma che l’obiettivo non è quello di frustrare un federalismo sano ed efficiente, ma di evitare sprechi e duplicazioni.